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Riprendiamoci la democrazia

Cinque esortazioni per gli italiani afflitti dal nuovo regime

 

4 - Riprendiamoci la patria

"Italia, patria mia, nobile e cara terra, dove mio padre e mia madre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno; bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli, unita e libera da pochi anni; che spargesti tanta luce di intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi morirono sui campi e tanti eroi sui patiboli…Ti amo, patria sacra! E ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i tuoi grandi vivi e i tuoi grandi morti, che sarò un cittadino operoso e onesto, inteso costantemente a nobilitarmi per rendermi degno di te…Giuro che ti servirò come mi sarà concesso, con l'ingegno, col braccio e col cuore e che se verrà un giorno in cui dovrò dare per te il mio sangue e la mia vita, morrò gridando al cielo il tuo nome".

Questa sarebbe "la retorica di De Amicis", come si dice oggi. Prima ancora che dai politologi essa viene contestata dai comitati delle mamme, quelle che tempestano di fax il ministero della Difesa se il loro "bambino", in servizio militare, viene impiegato in qualche operazione che comporti il minimo rischio.
È la voce del nazionalismo popolare del primo Novecento, di Corradini e di Pascoli, dei cattolici e dei sindacalisti "interventisti", che sognavano l'Italia grande e proletaria. Questi erano i valori antecedenti al fascismo, durati in gran parte della popolazione fino agli anni Cinquanta e che poi sono stati sostituiti dai nuovi "valori". Ma quali?

Per più di ottant'anni lo Stato post – unitario cercò (nel bene e nel male) "fatta l'Italia, di fare gli italiani", di creare una patria. Dal 1945 in poi, lo Stato si è posto in antitesi agli italiani al punto che oggi l'unica forma veicolabile di patriottismo sembra essere la guerra allo Stato. Distruggere lo Stato partitocratico per salvare l'Italia. E poiché l'impresa sembra a molti difficile, perché il regime è più forte e subdolo oggi che nel Ventennio, ecco l'idea succedanea di separarsi dall'Italia, facendola a tocchi, marciando sui cadaveri dei propri antenati, morti sul Carso o sul Grappa. L'apostasia del separatismo ha trovato terreno fertile proprio nei nuovi "valori" imposti agli italiani: quello del cattolicesimo "sociale" che rifiuta la cultura italiana e prepara il melting pot con l'immigrazione legale e clandestina, quello del post – comunismo che ha conservato le stimmate dell'internazionalismo; quello si un liberismo senz'anima che si stacca dal liberalismo e si affida all'ineluttabile trionfo delle multinazionali. Tutto ciò mentre il degrado culturale riporta in auge l'atavico e guicciardiniano "peculiare", e mescola lo spirito di campanile dei secoli bui con il culto dei dialetti, delle etnie, delle saghe e del familismo mafioso.

Ed è soprattutto lo Stato, con i suoi funzionari, a seminare i non – valori. "Si tratta di addetti alla pubblica amministrazione, all'educazione scolastica, inclusa quella universitaria, che non sembrano aver ritenuto, nella maggioranza dei casi, che un passabile livello di alfabetizzazione. Uno dei tratti più caratteristici è la loro complessiva estraneità alla tradizione culturale nazionale, la scarsa o nulla consapevolezza della vicenda storica italiana, la mancanza di una qualsiasi idea dell'Italia, vale a dire di un qualsiasi progetto ideologico – politico che sia collegato con i caratteri peculiari della compagine nazionale. Più in generale, è evidente nei loro gesti lo sradicamento da qualunque passato; il che significa l'impossibilità – incapacità di vivere e agire su tempi lunghi, di padroneggiare la quotidianità e di prenderne le distanze in nome di un elemento etico (dal momento che la moralità è sempre anche una memoria). La loro esistenza, viceversa, si trova tutta immersa nel presente, scandita dagli ingranaggi dell'attualità. La loro unica lettura sono i giornali, la loro divisa morale è il cinismo" (Ernesto Galli della Loggia).

Lo Stato dei partiti è diventato il sequestratore della patria, l'ha vampirizzata. È diventato potente, onnivoro, soffocante, sopraffattore. Si è sviluppato come una piovra sicché tutto ciò che è statale, dalle imprese ai funzionari, si trasforma in elemento di sfruttamento del cittadino, costretto per sopravvivere a diventare a sua volta cliente. L'intera burocrazia, trasformata in riserva delle clientele e in costoso baraccone di intoccabili, è diventata "altro dalla patria". Da una parte dello sportello c'è il cittadino, dall'altra il rappresentante spocchioso dello Stato, e nelle pubbliche istituzioni da una parte c'è il senza patria e dall'altra il proconsole del partito, l'amministratore prestato dal partito, il sindacalista custode dei voleri del partito. Come scrive Sergio Romano: "gli storici ci diranno un giorno chi abbia maggiormente ferito l'unità nazionale: il fascismo con una guerra cui il Paese era inadatto e impreparato, o la partitocrazia e la democrazia consociativa con la loro gestione corrotta e clientelare della cosa pubblica".
Lo Stato dei partiti e delle clientele è diventato così costoso che metà dei cittadini lavora per consentire all'altra metà di continuare a farsi mantenere dallo Stato, e poiché la fame della piovra era crescente, lo Stato è diventato anche l'usuraio che ha prestato i soldi ai partiti indebitando la patria per le prossime generazioni.

Questo regime che si è sostituito alla patria di tutti, che non vuole sentirla neppure nominare e la bolla come "fascista", che si nasconde dietro il paravento dell'Europa in nome della quale chiede soldi, e ancora soldi che vanno a ripianare i furti di un'intera classe sfruttatrice, ha raggiunto lo stadio che Jean – Françoise Revel definisce dell'assolutismo inefficace. "Volendo appropriarsi di tutta la vita pubblica, il potere invade tutti i dominî, paralizza l'azione, non ha più alcuna presa sulla società, diventa incapace di riformare e di riformarsi, mentre i poteri legislativi e giudiziari perdono autorità, trionfa la corruzione, e i mezzi di informazione, pur avendo persa ogni legittimità democratica, dettano legge".

L'assolutismo inefficace del regime consociativo ha tolto all'Italia i suoi connotati di nazione più di quanto avesse fatto l'otto settembre. Ridotta a luogo folcloristico – balneare – malavitoso, l'Italia attinge valori stagionali dalla televisione, espressi come mode: il pacifismo acritico e spesso unidirezionale, il solidarismo empirico, il compromesso come prassi permanente in assenza di valori irrinunciabili, l'edonismo chiassoso e volgare nella peggiore vulgata americana. Poco importa – come osserva Sergio Romano – che la legge, solo falsamente maggioritaria, rischi di consegnare il Nord alla Lega, il Centro al vecchio Partito Comunista, il Sud all'ex notabilato democristiano. "La vecchia classe politica non può rifare lo Stato, ma è abbastanza forte per impedire che altri le tolga i poteri costituenti. E pur di ritardare il giorno della sua scomparsa non esita a rendere ancora più imbrogliato e inestricabile il nodo della crisi italiana. L'Italia le è scappata di mano, ma non al punto di privarla del più pericoloso dei poteri: il diritto di veto."

Nei rapporti col resto del mondo, la cancellazione della patria ci ha portato a due risultati inevitabili: all'assenza di una politica estera italiana e all'assenza di una difesa militare.

L'Italia del dopoguerra ha avuto una politica estera finché ci fu De Gasperi. Fu una politica di dignitosa ripresa dopo la sconfitta, di contenimento delle vendette ad opera dei vincitori, di scelta di campo netta, in chiave atlantista. Poi, a mano a mano che i partiti si impossessavano dello Stato, cancellandolo, scomparve anche la politica estera. Con la dipartita di De Gasperi prese il via quel regime partitocratico che mescolava governo e opposizione, facendo sì che nessuna legge potesse essere varata senza il tacito consenso dei comunisti. La politica estera passò in mano ai partiti, la Farnesina divenne il luogo dove si elaboravano progetti democristiani, socialisti, raramente laici, a seconda dei momenti, progetti quasi sempre compromissorî. E poiché l'influenza delle sinistre era in buona parte determinante, l'Italia continuò a stringere alleanze d'ogni genere con l'Occidente e a trescare con L'Oriente, a chiedere aiuti agli Usa ma a favorire l'Urss, a dirsi filoisraeliana e a complottare col mondo arabo, giustificando con motivazioni ambigue la sostanziale infedeltà del suo atteggiamento.

Del resto, se gli Usa cercavano di comprare questa fedeltà con aiuti ufficiali e ufficiosi ai partiti occidentalisti, l'Urss – che rappresentava il nemico, in piena guerra fredda – continuava a inviare montagne di dollari al Pci, che li andava a convertire in lire nelle stesse banche presso le quali la Dc cambiava i suoi, senza che nessuno lo accusasse di alto tradimento. Il regime bicolore catto – comunista, erede di quello monocolore del fascismo, non aveva le ambizioni imperiali di Mussolini, né le più modeste aspirazioni dell'autonomia politica. In mancanza di patria, la politica estera non poteva esistere. I partiti facevano pedestre riferimento ai loro sponsor stranieri: Washington, Mosca, la Città del Vaticano. Quando i nostri ministri degli Esteri parlavano degli interessi della nazione, in realtà pensavano a quelli delle loro organizzazioni partitiche. E i due partiti egemoni davano un colpo al cerchio e un altro alla botte. Mandavano, su suggerimento americano, le truppe italiane in Libano "per difendere il governo maronita di Gemayel" le quali, ivi giunte, si dedicavano a proteggere gli eszbollah, terroristi compresi.

Per decenni, l'unico carattere della politica estera italiana è stato il terzomondismo, inteso come supporto camuffato agli interessi di Mosca. Abbiamo protetto per via diplomatica tutti i rivoluzionari latino – americani, arrivando ad offrire agli insorti le nostre ambasciate (come in Cile), abbiamo costruito i lager nei quali Menghistu rinchiudeva gli oppositori durante la prima pulizia etnica nelle nostre ex colonie. Abbiamo protetto armi in pugno i terroristi palestinesi colti in piena azione, difendendoli dagli americani, rispedendo a casa con tutti gli onori e a nostre spese il loro capo, Abu Abbas.

In compenso, abbiamo accettato le basi militari alleate, l'installazione di testate atomiche Usa sul nostro territorio negli stessi anni in cui ci condannavamo alla penuria energetica rifiutando, in nome dell'ecologia, le centrali atomiche a uso civile.

La sintesi di due politiche estere parallele, quella del governo e quella dell'opposizione comunista, veniva raggiunta con la politica della doppiezza, con l'otto settembre permanente: firmavamo i documenti di appoggio alla politica americana, poi scendevamo in piazza contro l'imperialismo Usa. Così avvenne fin dalla guerra di Corea, nel 1950, poi con l'insurrezione d'Ungheria nel 1956, così fu per la guerra del Vietnam dove cattolici e comunisti appoggiarono Ho Chi Minh, e via elencando.

Dopo la vergogna della seconda Guerra mondiale, il prestigio dell'Italia non è mai stato restaurato. I tedeschi hanno continuato a vedere nel nostro doppio gioco la tradizione del tradimento. Gli americani, già dai tempi di Fanfani chiamavano "mau mau" gli uomini della Farnesina. Ancora recentemente, in occasione della battaglia anglo – europea sulla "mucca pazza", il nostro commissario Emma Bonino veniva gratificata dagli inglesi "col più grande odio e disprezzo per la sua nazione e per i suoi concittadini" e invitata a "tornare al suo Paese marcio e mafioso e a restarci", visto che "una delle poche cose buone dell'ultima guerra era stata la sconfitta dell'abietta Italia".

Le epurazioni del corpo diplomatico e la sua radicale lottizzazione hanno infine permesso quella nuova vergogna che è stata la "cooperazione" italiana con Paesi in via di sviluppo: una tangentopoli all'ennesima potenza sulla quale non potremo mai avere un'indagine approfondita.

Eppure il concetto di patria implica l'idea della dignità. Ma lo Stato dei partiti tutto può offrirci, tra un furto e l'altro, fuorché la dignità. Altri "valori" lo ispirano. "Riposti patria e tricolore, sventolano i vessilli di Maastricht, del capitalismo renano, dell'altra America clintoniana, della stampa estera, dei mercati finanziari, del federalismo tradito, dell'Italia dei sindaci e delle cento città" (Virgilio Ilari). I valori di una nazione che ha messo i suoi beni all'asta.

Lo stesso discorso vale per le Forze Armate. Dopo l'8 settembre 1943 i vertici militari erano in gran parte coinvolti nel disonore della nazione. Il processo ai responsabili fu una burletta, né poteva essere altrimenti nella nuova Repubblica che intendeva declassare la guerra degli italiani a guerra fascista e che quindi vedeva nei disertori la crème dell'antifascismo.

Il tentativo di voltare pagina e di ridare spirito e volontà alle nuove Forze Armate fu subito abortito per due ragioni: da un alto si volle escludere dalle nuove armi che aveva combattuto nella Rsi, ribadendo l'idea che per i militari, come per i politici, la nuova Italia doveva rappresentare solo i vincitori; dall'altro si temette subito che il patriottismo implicito nei soldati creasse una casta non sufficientemente ligia al nuovo regime. Il mito di un possibile colpo di stato militare servì fin dall'inizio a demilitarizzare i militari, come servirà più volte nel corso della Prima Repubblica. A ciò si aggiunga che l'americanizzazione dei costumi favorì ben presto l'abitudine di considerare il soldato come elemento necessario, ma fondamentalmente sgradevole e asociale.

La politicizzazione delle ex regie Armi, conseguente alla guerra partigiana, fece il resto. Le carriere degli ufficiali dipesero ben presto dall'appoggio di deputati, ministri, cardinali e faccendieri, fino ad essere condizionate direttamente dai partiti. Militaropoli è la conseguenza di questa corruzione, nascosta nell'ovatta di duemilacinquecento patteggiamenti giudiziari che hanno rivelato l'inquinamento morale del 10 per cento degli ufficiali in servizio.

In assenza di patria, l'esercizio della difesa diventava semplicemente un mestiere col quale si poteva far fronte, a prezzi modici, alla disoccupazione. Si invitavano ad arruolarsi in marina i giovani vogliosi di fare sport salutisti, nelle truppe di montagna gli appassionati di alpinismo, nel Genio quelli che volevano crearsi un mestiere per dopo.

Lentamente tutto l'apparato militare, con bilanci sempre più esigui, veniva condotto ad un'unica filosofia: quella di tirare a campare, e per indurvelo il regime largheggiava in una sola cosa, le promozioni. Fino ad arrivare ad un affollamento di alti gradi al limite del ridicolo: 300 generali e 1200 colonnelli per solo 19 brigate; 90 ammiragli e 430 capitani di vascello per trenta navi; 90 generali e 500 colonnelli per 31 gruppi di volo (dati del 1996). Dei 30mila miliardi destinati alla difesa, tre quarti se ne vanno in stipendi. Ogni operazione internazionale che ci vede coinvolti crea buchi nei bilanci e ci rivela l'inadeguatezza dei reparti e dei materiali a disposizione.

Tuttavia, il dramma più grave delle forze armate è di non avere patria. Esaltati come portatori di pace nelle missioni internazionali, come pompieri di complemento nelle alluvioni, come succedanei della polizia nelle zone mafiose, ai militari si parla di tutto fuorché della difesa della nazione e soprattutto si rimprovera loro ogni atteggiamento militarista. Abolita ogni cerimonia militare, imposto l'abito borghese per le reclute in libera uscita, mandate in soffitta le tradizioni inevitabilmente sabaude, le memorie reggimentali, l'orgoglio della divisa, lo spirito di corpo, abbandonato tra i paradossi storici il decorum pro patria mori, impostasi la tradizione impiegatizia statunitense senza che ve ne fossero i vantaggi economici, il soldato italiano, arruolato tra i superstiti di una gioventù di obbiettori, è perennemente in cerca di una motivazione per il suo compito e non trovandola giudica anacronistica la disciplina militare, improponibile l'habitat nel quale è condannato ad annoiarsi mortalmente, in assenza di un serio addestramento.

Il soldato italiano riesce a sussistere come realtà nazionale solo perché non è mai chiamato a fare il soldato. Le rare volte che è convocato in missione si desta di soprassalto in un contesto che gli è estraneo e resta vittima di quella mancanza di valori che i tecnici definiscono ipocriticamente "impreparazione psicologica": da Corcione ai parà di Mogadiscio ogni défaillance ripropone lo stesso dilemma: "Per chi e in nome di chi?".

Ridare le bandiere e lo spirito combattivo a un esercito di volontari, consapevole che non ci sono mai state tante piccole e devastanti guerre come da quando è scoppiata la pace, non può essere che il primo passo perché anche le Forze Armate riconquistino la loro patria.

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