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Visti e raccontati
40 ritratti di personaggi famosi nel mondo
Abdallah, Arafat, Aron, Giovanni Artieri, Siad
Barre, I Beatles, Fernando Botero, Brodskij, Buzzati, Paolo Caccia
Dominioni, Caldera, Violeta Chamorro, Il Conte d'Oreléans,
Renzo de Felice, De Oliveira, De Soto, El Mahdi, El Tourabi, Filippo
di Edimburgo, Lucio Fontana, Fujimori, Giancarlo Fusco, Garaudy,
Saddam, Walid Jumblatt, Khomeini, Lula, Umber Matos, Maximov, Menem,
Montanelli, Ortega, Perez Prado, Uslar Pietri, Pinochet, Norman
Podhorez, Vittorio G. Rossi, Savimbi, Stroessner, Umberto II
(Di seguito si propone il ritratto dedicato a
Indro Montanelli)
Montanelli
Il toscanaccio
Quando
Montanelli morì, non scrissi una riga e giurai che non l'avrei
mai fatto. Scrissero tutti, lo osannarono tutti, anche quelli che
l'avevano denigrato in vita, anche gli «amici» che amici
non erano e che lui, per anni, aveva qualificato come bischeri.
Fu uno spettacolo sconcertante di usucapione del morto. Ora devo
violare la consegna del silenzio perché non si creda che
io non lo ritenga uno dei grandi, tra quanti ho avuto la ventura
d'incontrare, proprio grazie a lui.
Quando mi mandò a chiamare, nel 1974, per
offrirmi di lavorare con lui nel neonato Giornale, dissi
di sì senza neppure chiedere quant'era lo stipendio. Non
ci conoscevamo di persona, ma lui era già un mito. Andai
a incontrarlo in Piazza Cavour, a Milano, e lo trovai nell'ufficio
del suo vice, Biazzi, con le gambe allungate su tre sedie. Fu festoso,
ma di poche parole. Al momento di congedarmi, sfoderò il
suo sorriso ironico e mi disse: «Ma tu che toscano sei se
'un parli toscano?».
Quello fu il timbro che contrassegnò i vent'anni
di nostra convivenza. Un rapporto toscano, anzi, di Padule, una
specie di amore a dispetto, per altro impercettibile a occhio nudo.
Sì perché i Montanelli, come i Lami, hanno vissuto
per secoli nel triangolo Empoli-Orentano-Pontedera, i primi a Fucecchio,
i secondi a Santa Croce e Orentano, e sono stati cresciuti a latte
e stilettate. Ancor oggi, rileggendo i Controcorrente,
riconosco quelli scritti da Indro e quelli che gli preparavano i
collaboratori. Nei secondi non c'è la sintesi al vetriolo
delle cerebrali bestemmie di Padule.
Tutto, nel suo carattere, derivava da una certa toscanità.
Colto, usava il suo sapere come arma, ma non lo esibiva. Il farlo
avrebbe danneggiato quel fiuto da setter in perenne punta che gli
consentiva di capire gli umori della gente con grande anticipo rispetto
ai suoi colleghi e soprattutto ai politici.
Il sovrano distacco dal denaro non gli impediva di
amministrarsi con astuzia medicea. Il parco desinare da contadino
fucecchiese, tra le cause evidenti della sua longevità, era
anche la raffigurazione del suo tradizionalismo, trasformato in
eleganti vezzi, come la ricerca perenne di quei fagioli al fiasco
che un trattore milanese finì per contraffare, pur di accontentarlo.
Il suo laicismo ghibellino gli consentiva giudizi pragmatici, lontani
dalle passioni e per questo più lucidi e a volte feroci.
Dichiarandosi un «non-direttore», dirigeva
il giornale come un principe rinascimentale, scegliendo con grande
fiuto i suoi collaboratori e spingendoli a rivaleggiare tra loro,
ma portandosi appresso anche qualche giullare che lo sollevasse
nelle frequenti ore di cupa depressione e dimostrandosi munifico
con le ancelle alle quali concedeva i suoi favori. Come tutti i
toscani amanti delle spezie, aveva la sua droga: il plauso dei lettori.
Riceveva ogni giorno sacchi di corrispondenza e un leggero calo
di quell'afflusso lo metteva di malumore.
Non aveva altri amori autentici o ragioni di vita
che il giornalismo. L'unica volta che lo vidi commosso fu quando
gli morì la madre, la donna forte che gli telefonava ogni
giorno e che, all'occorrenza, lo redarguiva; la vestale del suo
successo che faceva rilegare in marocchino rosso la collezione del
Giornale. Con le altre donne amate ebbe sempre dei problemi
perché i suoi amori erano immancabilmente triangolari: lui,
lei, il giornalismo. E quest'ultimo aveva la meglio. Anche Colette,
la più intelligente, dovette arrendersi a questa ineluttabilità.
Indro aveva del suo giornalismo una visione pervasiva
ed eliocentrica, sintetizzabile nella frase che scrisse a Zucconi,
direttore della Domenica del Corriere: «I miei articoli
non li taglia nemmeno Dio». Atteggiamento che non nasceva
da presunzione, ma dall'idea che un giornalista è veramente
tale quando è totalmente libero. Un'idea che, da direttore,
applicava anche ai suoi sottoposti. In vent'anni di convivenza,
a volte non priva di frizioni, non toccò mai un mio articolo.
Quando, dopo un'inchiesta sulla droga, in Colombia, scrissi che
l'unica arma contro i narcos era la liberalizzazione, mi telefonò:
«Lo sai che ho appena sostenuto la tesi opposta?». Ma
il mio articolo uscì integrale.
Dava ai suoi colleghi ciò che aveva preteso
per sé e restò sempre convinto che il miglior giornalismo
fosse quello che aveva praticato lui per una vita, quello dell'inviato.
Quando, nei primi anni Ottanta, forse per gratificarmi, mi offrì
la sede di Parigi come corrispondente, rifiutai senza neppure pensarci,
dicendo che preferivo continuare a girare il mondo come inviato.
Mi aspettavo una risposta piccata, invece vidi il suo viso illuminarsi:
«Fai bene, disse, il giornalismo è solo quello».
Era parco di complimenti e non amava che i suoi giornalisti
si inserissero con la loro popolarità nel dialogo con i lettori,
che considerava una sua esclusiva, ma quando riceveva qualche articolo
che riteneva eccellente inviava telegrammi («Magistrale il
tuo pezzo di oggi») che valevano una commenda.
Quando ruppe i rapporti con Berlusconi, per il semplice
fatto che non c'è posto per due galli in un pollaio, non
lo seguii, e mi cercai un posto altrove. Restammo un anno senza
vederci e immaginavo il suo dramma mentre La Voce precipitava.
Poi, quando già era tornato al Corriere, ci invitarono
entrambi a presentare un libro su Guareschi. Fu un incontro bellissimo,
affettuoso, perfino tenero.
Mi disse che soffriva per non aver potuto salvare
tanti redattori rimasti senza lavoro. Che si era ricostruito un
ufficio con tutti i suoi cimeli del Giornale: i mobili
ereditati dal padre, il quadro di Maccari, il ritratto di Prezzolini,
le foto della «moglie» abissina. Mi parve molto invecchiato.
Credo che in quel periodo egli rivisitasse spesso
i lembi della sua storia, che poi è la storia d'Italia, da
quando aveva esordito col «Battaglione eritreo» ai giorni
della gavetta al Paris Soir, ai primi articoli sull'Universale.
Dalla guerra di Spagna seguita per il Messaggero, ai servizi
da Tallin, spediti da esiliato, per La Stampa. Poi, tutta
una vita al Corriere della Sera, fino alla rottura del
1973. E ancora: vent'anni di Giornale. Infine La Voce
e il ritorno in via Solferino.
Gli dissi che anch'io conservavo i ricordi, soprattutto
la fotografia di noi due e di mia figlia con un mazzo di fiori,
scattata in ospedale, poco dopo che lo avevano gambizzato.
Capii che il commuoversi lo infastidiva e cambiai
discorso. «Sai, ho ricevuto delle vecchie carte di famiglia
e ho scoperto che a metà dell'Ottocento un Lami di Orentano
sposò una Montanelli di Fucecchio. Credo che siamo un po'
parenti... ».
Allora, all'improvviso, si riebbe: sfoderò
il sorrisetto del nostro primo incontro e, allargando le lunghe
braccia, sospirò: «Ci mancava solo questo».
Fu l'ultima volta che lo vidi.
-» Visti
e raccontati. 40 ritratti di personaggi famosi nel mondo di
Lucio Lami
208 pag., euro 18,00 (all'agosto 2007)
Edizioni Ares, 2003 (Profili)
ISBN: 88-8155-277-9
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