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Il Re di maggio

Umberto II: dai fasti del «Principe bello» ai tormentati anni dell'esilio

(Di seguito si propongono la prefazione e il primo capitolo)

Prefazione

Lucio Lami - Il Re di maggioNell'autunno del 1979 chiesi all'amico Falcone Lucifero, che ricopriva la carica di ministro della Real Casa, se gli sarebbe stato possibile fissarmi una serie di incontri con re Umberto, in esilio a Cascais. Volevo intervistarlo e avere la sua opinione sull'interpretazione storica che si andava radicando a proposito della caduta della monarchia sabauda. Pensavo che a più di trent'anni dagli eventi egli potesse dire qualcosa di meno ufficiale di quanto, molto cautamente, aveva detto fino a quel momento in altre interviste, compresa quella rilasciata, proprio in quel periodo, alla televisione italiana.

L'appuntamento per l'inizio degli incontri mi fu fissato per il 23 ottobre, alle 17,30. Partii qualche giorno prima perché volevo rivedere Lisbona, visitando i luoghi e gli ambienti frequentati da Umberto, specie nei primi anni d'esilio: il Barrio Alto, la Rua das Taipas, il locale «La Viela», dove l'ex sovrano si era recato a lungo e frequentemente per ascoltare Amalia e Celeste Rodriguez, le regine del fado.

Nei dintorni di Lisbona interrogai anche molta gente della strada per farmi un 'idea di che cosa pensassero i portoghesi dell'ex re d'ltalia, e scoprii che i giudizi erano diversi a seconda dell'età degli interrogati: i vecchi avevano una simpatia spiccata per lui e ricordavano quasi con affetto che gli era toccata la stessa sorte di Carlo Alberto, di finire cioè a macerarsi nei ricordi davanti all'Oceano. Lo consideravano un po' portoghese, quasi uno di famiglia.

I giovani, invece, spesso neppure sapevano chi era, o se lo sapevano erano del tutto indifferenti alla sua vicenda. Dopo la rivoluzione dei garofani, sembravano aver archiviato la storia del tempo dei regni e delle dittature. Tra di loro, alcuni, più rispettosi, lo consideravano un padre sfortunato con i figli sempre nei guai, altri, i più malevoli, dicevano di averlo intravvisto a La Boca, in spiaggia, «a guardare i marinai, più che il mare».

Mi parve che l'esilio avesse, tra i tanti inconvenienti, quello di lasciare Umberto disarmato di fronte ai pettegolezzi e agli assalti della stampa che si andava occupando dei reali sempre meno in chiave storica e sempre più in versione scandalistica: dalla memorialistica degli anni Cinquanta e Sessanta si stava passando, soprattutto in Italia, allo «scoopismo» dei fogli popolari, visto che le disavventure della famiglia reale erano diventate uno dei propellenti preferiti per tonificare le vendite, soprattutto dei periodici.

Il re mi ricevette la prima volta, di pomeriggio, a Villa Italia, nel salotto del pianoterra dov'era solito incontrare i visitatori. Vestiva di grigio, era moderatamente abbronzato, molto affabile. Mi fece accomodare su un divanetto sopra il quale era appeso, incorniciato nel vetro, uno stendardo tricolore. Mi disse di aver letto il mio libro sul «Savoia Cavalleria» in Russia e, indicandomi il quadro, aggiunse: «Quello, come vede, è lo stendardo del suo reggimento».

«Non può essere», risposi, interrompendolo istintivamente e violando subito l'etichetta, «quello di Savoia era bruciacchiato, fatto a pezzi e ricomposto, quando il colonnello Bettoni, nel dopoguerra, venne a riconsegnarglielo».
Sorrise compiaciuto. «È vero», disse. «È una copia. L'originale lo tengo nella mia camera da letto».

Ebbi subito l'impressione che non sarebbe stato facile intrattenerlo su temi scabrosi. Aveva l'atteggiamento di chi ha già scritto la sua storia e non intende apporvi modifiche.
Mi trattenni per una settimana. Di giorno in giorno fissavamo l'incontro per l'indomani. Dopo le prime due interviste, mi invitò a proseguire i lavori nel suo studio, al piano di sopra. Con grande tatto, non si sedette alla scrivania, ma accanto a essa, facendomi accomodare di fronte a lui.

A mano a mano che le conversazioni procedevano, il suo eloquio si faceva più discorsivo, quasi avesse superato il suo riserbo e la naturale timidezza. A volte, su temi che non gradiva, dava risposte brevi, ora evasive ora lapidarie. Altre volte, su argomenti che lo interessavano, faceva lunghe digressioni, pregandomi poi di considerarle «off the records».
Un giorno dovette lasciarmi solo, per pochi minuti, e rientrando mi trovò intento a leggere i dorsi dei libri della sua biblioteca. «Quelli, mi disse, sono tutti volumi di storia scritti nell'immediato dopoguerra che mio padre si fece mandare in Egitto e che postillò a matita. Se lei volesse, un giorno, potrebbe venire a fare una vacanza da queste parti e io potrei farglieli consultare: sono certo che ne uscirebbe un libro molto diverso da quelli che si scrivono oggi».

Mi mancò sempre il tempo di onorare quell'invito e ancor oggi me ne rammarico. Mi chiedo anche se parte di quei libri non siano finiti, come altri, sulle bancarelle.

Parlando del periodo della reggenza, dissi al re che le documentazioni sui suoi spostamenti erano molto povere. Rimase sorpreso. L'indomani mi fece trovare quattro grossi faldoni pieni di fogli accuratamente datati: erano i diari quotidiani tenuti dalle sue ordinanze nei quali era registrato, ora per ora, tutto ciò che Umberto aveva fatto dal 1943 al 1945.
Fu, quello, un dono prezioso del quale mi sono ampiamente servito nella stesura di questo libro.

Mi disse anche che stava lavorando sulle carte d'archivio di Casa Savoia. Sapevo dell'esistenza di quei documenti, murati a Roma durante l'occupazione tedesca, spediti in Egitto per volere di Vittorio Emanuele III ed evidentemente arrivati a Cascais. Mi dicono che ora sarebbero secretati per cinquant'anni, sigillati in custodie cilindriche e affidati a fedelissimi, in luoghi sicuri.

A più riprese portai il discorso sull'Italia dei nostri giorni, ma ebbi sempre risposte cautissime, da un uomo che continuava a considerarsi re di tutti gli italiani. Soltanto una volta, mentre scendevamo in giardino, alla mia domanda se ci fossero dei politici italiani che tenevano contatti con lui, mi rispose che, nella maggior parte, lo evitavano. Mi raccontò anche, con un pizzico di ironia, che non molto tempo prima Andreotti, di passaggio a Lisbona, «non si era fatto vivo», pur essendo uno dei commendatori della Corona.

Rientrato a Milano, citai quell'episodio in un mio articolo, e prontamente il re mi mandò a dire, tramite Falcone Lucifero, che quel commento non era stato fatto durante l'intervista, ma in privato, e che non avrebbe dovuto essere pubblicato. Mi scusai. Dopodiché mi arrivò da Cascais una foto di Umberto con dedica.

Il re morì senza ottenere di poter rientrare in Italia. Molti sostengono che soffrisse, tormentato dalla nostalgia. Parlandone con lui, ebbi l'impressione che non fosse la nostalgia ad angustiarlo, ma il senso della giustizia violata e della storia manomessa: un sentimento del quale i suoi detrattori erano fortemente carenti.

La sua casa non aveva nulla di regale: era una specie di museo che egli si era pazientemente costruito attorno per attendere la morte in sintonia con la millenaria storia della sua famiglia. Mi diede l'impressione che fosse perfettamente consapevole di avere avuto dal destino («la Provvidenza», diceva lui) l'amaro compito di chiudere un'epoca così lunga, il cui valore storico non era bastato a controbilanciare gli errori di suo padre e degli italiani, a meno di cent'anni dall'unità d'Italia.

Per un giudizio definitivo su Umberto II bisognerà attendere ancora per anni: molti documenti sono ancora irreperibili, secretati, nascosti. Ma molti passi avanti sono stati possibili: le carte riservate del Dipartimento di Stato americano, che qui riporto, già consentono un notevole cambiamento di giudizio sui rapporti tra il governo Usa e la monarchia italiana. Gli studi di Malnati sul referendum rendono l'affaire dei brogli molto più che un sospetto.

La conclusione che già si può trarre è che Umberto si comportò nei riguardi del fascismo come il novanta per cento degli italiani, pur essendo intimamente convinto che il regime era per molti versi inaccettabile. La singolarità della sua vicenda sta proprio in questo, nel non aver potuto usufruire, come la maggior parte dei suoi connazionali, della grande rimozione storica di quel periodo, e nell'aver pagato in solitudine un prezzo sproporzionato anche per molte colpe che non erano sue.

 

1. Un giorno, una vita

La mattina del 9 settembre 1943 un sole tiepido nel cielo terso illuminava gli spalti dell'antico castello di Crecchio, vicino a Chieti, appartenente ai duchi di Bovino. Il duca Giovanni de Riseis, senatore del Regno, e sua moglie, la duchessa Antonia Gaetani dell'Aquila d'Aragona, dama di compagnia della regina, vi trascorrevano in quei giorni una vacanza di guerra, da sfollati in casa, in compagnia della figlia Teresa e dei nipoti.
In quelle ore, la conversazione tra i padroni di casa riguardava ossessivamente un solo tema: che cosa sarebbe accaduto all'Italia dopo la proclamazione dell'armistizio che Badoglio aveva improvvisamente annunciato alla radio, in termini piuttosto ambigui, il giorno prima? C'era l'armistizio con gli anglo-americani, ma come avrebbero reagito i tedeschi, alleati abbandonati dall'Italia?

I commenti vennero interrotti bruscamente verso le dieci, quando Bice, una delle nipoti, che se ne stava nel parco studiando tedesco con fräulein Buckberger, vide arrivare a piedi, dalla lontana entrata del parco il principe ereditario, Umberto, che le disse di avvertire la nonna perché davanti al cancello, chiuso, erano ferme molte automobili con a bordo il re, la regina e numerosi ufficiali.

Bice si precipitò a dare l'allarme. Il giardiniere, noto in casa per essere dichiaratamente comunista, fu spedito ad aprire, ma non si sa se per aver sbagliato le chiavi o perché volesse prendersi qualche soddisfazione, impiegò un tempo interminabile prima di far entrare il corteo (1).

Tra lo stupore dei padroni di casa, dalle macchine scesero effettivamente re Vittorio Emanuele III, la regina Elena, il generale Puntoni, aiutante di campo del re, il generale Badoglio, capo del governo, il generale Gamerra, aiutante di Umberto, gli ufficiali d'ordinanza Di Campello e Litta, il colonnello Buzzaccarini e altri personaggi che si aggiungevano man mano, oltre agli autisti e ai domestici della regina.

Il principe Umberto, che aveva preceduto tutti risalendo il parco a piedi, aveva dato una prima spiegazione alla strana visita: la famiglia reale e il governo, per sottrarsi alle ire dei tedeschi, stavano per trasferirsi in una località non occupata dagli ex alleati e neppure dagli anglo-americani, ed erano diretti a Pescara. Costretti a fermarsi per un contrattempo, su suggerimento dello stesso Umberto avevano deciso di far tappa al castello di Crecchio, dove il principe aveva trascorso con la moglie, anni prima, un piacevole soggiorno ospite dei Bovino.

La duchessa, dopo il saluto concitato agli ospiti inattesi, si dedicò alla loro sistemazione: fece accomodare i reali e i generali, dirottò gli ufficiali più giovani nei salotti al piano terra, fece preparare la sua camera da letto per il re e per la regina che dovevano rinfrescarsi, sloggiò la nipote Bice dalla sua camera per metterla a disposizione del principe, mobilitò il personale, diede ordine al cuoco napoletano, don Alfonso, di procurarsi presso i contadini dei polli e di preparare un pasto caldo per una quarantina di persone.

Il duca di Bovino intratteneva intanto Badoglio, il quale si affrettò a spiegargli un po' confusamente che «stava portando la famiglia reale in un lembo di terra libero, per evitarne la cattura da parte dei tedeschi e per organizzare un nuovo esercito in modo che gli inglesi potessero credere alle intenzioni italiane di voler lottare alla formazione di un nuovo mondo libero». Disse anche che «quell'operazione doveva mostrare agli italiani quale fosse per il bene comune la via da seguire, in modo che tutti comprendessero che si stava giocando il tutto per tutto e che quindi tutti avrebbero dovuto seguire l'esempio dei governanti» (2).

Dopo che gli ospiti si furono rinfrescati, vennero poste delle sedie nel cortile perché si potesse attendere con calma l'ora del pranzo.

Pochi, tra i sopraggiunti, sembravano rendersi conto di come quel loro viaggio affannoso apparisse a qualsiasi osservatore come una tragica fuga e anche come l'ultima avventura della monarchia sabauda. Il re sembrava tranquillo. Badoglio, dopo aver manifestato i rischi corsi viaggiando in una zona infestata dai tedeschi, sosteneva con calore che entro quindici giorni tutti i presenti sarebbero stati di nuovo a Roma. A chi gli chiedeva in quali mani fosse stata affidata la difesa della capitale e in quali le redini delle Forze armate, il maresciallo rispondeva infastidito di aver dato personalmente gli ordini del caso.

Mentre la regina era andata a distendersi su un letto, gli ufficiali del seguito affollavano i salotti scambiandosi allarmate e contrastanti opinioni. La duchessa di Bovino, dopo aver consolato la regina (che, in lacrime, le aveva parlato di sua figlia Giovanna, vedova, di Mafalda partita per la Bulgaria e della quale non sapeva più nulla, di Umberto), si aggirava da un locale all'altro impartendo ordini, ma trovò il tempo di ascoltare molti scampoli di conversazione e di allarmarsi sempre più per le cose che veniva a sapere. Lo stesso principe Umberto l'aveva impressionata commentando tristemente la situazione e manifestando la sua contrarietà (3).

Tra la duchessa e il principe, dopo i convenevoli iniziali, la conversazione aveva assunto toni gravi e preoccupati. «Sul volto di donna Antonia aumentava un'espressione di sbalordimento e quasi di costernazione. A un certo punto, guardando il principe negli occhi e tenendo le mani giunte aveva sussurrato: "Conosce i miei sentimenti per la Casa, quindi la scongiuro, torni a Roma!". E col passare delle ore espresse a più riprese lo stesso voto» (4).

Umberto, che era tormentato da quell'idea già dalla sera prima, da quando cioè Badoglio gli aveva ordinato, come superiore in grado, di partire con i genitori, raggiunse in cortile i generali Gamerra e Puntoni che stavano discutendo proprio del suo problema. Il principe, appoggiato a una colonna dell'arcata, attese che anche il re e Badoglio si avvicinassero, per esporre ancor una volta il suo desiderio di tornare indietro. Ma Badoglio, che si era seduto sul parapetto del pozzo, divenne paonazzo e lo interruppe subito, dicendo di avergli già impartito un ordine in proposito. Il principe, pallido, trovò la forza di rispondere: «Per decisioni come questa, attendo ordini da Sua Maestà». Ma anche Sua Maestà non ebbe il tempo di replicare perché Badoglio, battendo un pugno sul parapetto, ribadì con veemenza: «Lei porta le stellette. È un soldato e mi deve obbedienza». Il re rimase in silenzio.

Lo scontro fu interrotto dall'arrivo di Acquarone, che era stato spedito a Pescara per vedere se tutto era tranquillo. Il ministro della Real Casa riferì che i tedeschi sfilavano sulla Tiburtina, ritirandosi senza sparare e ignorando i duemila avieri e ufficiali del vicino campo d'aviazione. Stranamente, la notizia non stupì nessuno: né Badoglio, che durante il trasferimento da Roma a Crecchio si era fatto prestare il cappotto del principe, ma, timoroso di incontrare i tedeschi, aveva risvoltato poco onorevolmente le maniche per nascondere i gradi; né il re, che sembrava convinto che gli ex alleati fossero in fuga verso il nord; né i generali, alcuni dei quali pensavano in cuor loro, come scrissero poi, che tra il vertice militare italiano e quello tedesco fosse stato raggiunto un accordo segreto che prevedeva l'abbandono di Roma da parte del primo, in cambio dell'incolumità dei sovrani e del governo.

Umberto restava angustiato. «A tenermi tanto agitato erano le conseguenze politiche di un avvenimento che si stava svolgendo in modo ben diverso da come era stato ipotizzato e progettato. A me, giunto a Roma da poche ore, era stato detto che il re aveva accettato il piano di trasferire la famiglia reale e il governo in altro luogo del territorio italiano che non fosse occupato dai tedeschi o dagli americani. Questo per garantire la continuità del governo e una politica che era favorevolmente iniziata il 25 luglio. Si dice che durante il viaggio io dissentivo. È vero, ma non dalla decisione di mio padre, che mi è sempre parsa meditata, ma da come i fatti si andavano evolvendo. Era evidente in quelle ore che, nonostante le assicurazioni che Badoglio continuava a dare al re, preoccupatissimo, buona parte dei ministri non si erano presentati all'appuntamento, evidentemente perché non informati. Io mi dicevo, in quella notte drammatica: che cosa accadrà domani quando questi ministri si alzeranno dal letto e scopriranno che noi non ci siamo più? Diranno: "Ecco, loro se ne sono andati e hanno lasciato noi nelle peste". Con quale animo ci saremmo ripresentati a Roma, di lì a pochi giorni, come si pensava allora, e avremmo incontrato questi membri del governo? O peggio, se fossero stati arrestati, deportati, uccisi dai tedeschi, quali giustificazioni avremmo dato?» (5).

Verso le tredici, la padrona di casa annunciò che il pranzo era pronto «per il primo turno». La regina aveva chiesto di rifocillarsi lontana da occhi indiscreti, così mentre gran parte dei militari attendeva il secondo turno, per il quale si allestivano tavoli in altri locali, nel salone principale entrarono i sovrani, i duchi di Bovino, la loro figlia Teresa, Badoglio, il principe e il suo aiutante di Campello, mentre il servizio in tavola veniva affidato non ai camerieri ma ai due giovani nipoti del duca, Giovanni e Luigi Cafiero. Quest'ultimo, emozionato, finì per rovesciare un grande vassoio di frutta per tutta la stanza, ma nessuno ci fece caso perché anche a tavola la conversazione continuava a essere un po' nevrotica e surreale. Solo Umberto ora taceva (6).

Vittorio Emanuele ironizzò sulla sua sorte, dicendo: «Tutto questo ci succede per una manovra elettorale»; e spiegò ai presenti, attoniti, che Roosevelt aveva voluto a tutti i costi annunciare la resa dell'Italia il giorno prima perché proprio in quelle ore aveva un'importante riunione elettorale. «Ma torneremo a Roma prestissimo», disse a un certo punto, e rivelando che il suo portafogli conteneva solo mille e duecento lire, spiegò che aveva portato denari solo per un viaggio breve.
Badoglio, che cercava di tenere il bandolo della conversazione, lasciava intendere di aver tutto pianificato: «Mi sun testòn piemonteis», disse in dialetto, «e se dico una cosa è perché ne sono sicuro: tra quindici giorni, al più tardi, saremo di ritorno».
Acquarone sosteneva di prevedere il rientro dopo solo tre giorni di assenza e di non avere, per questo, portato con sé che il vestito che indossava.

Indifferenti al mutismo di Umberto, i commensali tentavano di celiare. Qualcuno disse, rivolto al maresciallo Badoglio: «Chissà dove sarà a quest'ora Mussolini, prigioniero al Gran Sasso... ». E lui prontamente: «A quest'ora l'avranno già liberato». Quasi intuendo quella realtà ancora ignota ai fuggiaschi, il re chiosò, per stuzzicare il maresciallo: «Almeno lui mi è rimasto fedele per vent'anni».

La regina non gradiva questi commenti disinvolti. A un tratto, con aria triste, disse che l'esperienza le aveva insegnato che le rivoluzioni si sa dove cominciano e non dove finiscono, e ricordò la fine dei Romanov, in Russia (7).

Il pranzo fu rapido: brodo ristretto, pollo lesso, insalata e frutta. E fu più o meno uguale anche per gli ospiti del secondo turno, tra i quali le discussioni non ebbero sosta.

Verso le quindici il gruppo si accomiatò e il corteo di una quindicina di automobili prese la strada verso il mare. Ma all'imbocco con la Tiburtina incappò in una colonna motocorazzata tedesca che marciava verso Pescara e dovette lasciarla passare. Molto singolarmente, i tedeschi ignorarono quel corteo di vetture ufficiali e militari ferme sul ciglio che, alla fine, si accodarono alla colonna. Ormai era evidente che qualcuno, all'insaputa dei più, a cominciare da Umberto, aveva trattato nelle ultime ore l'immunità dei fuggiaschi. Ma chi? (8).

Mentre la colonna reale si avviava verso Pescara, le varie strade che andavano in direzione della costa si intasavano di veicoli civili e militari italiani. Ufficiali di ogni arma e grado, rimasti senza ordini, o ignorandoli, avevano abbandonato Roma e affluivano nella zona dove era prevista la presenza del governo. Il generale Ambrosio, capo di Stato maggiore generale, arrivò a Chieti e si installò in albergo, mentre centinaia di ufficiali si riversavano nella cittadina, convinti che quella sarebbe stata la sede del comando, in attesa del rientro a Roma. A detta di molti, Ambrosio, che pure era al corrente della destinazione finale dei fuggiaschi, non smentì questa convinzione, più che plausibile per tutti, visto che Roatta, capo di Stato maggiore dell'esercito, si agitava per impiantare presso il comando di Divisione di Chieti gli uffici destinati a riprendere contatti con tutto l'esercito. E fu a Chieti che anche gli ultimi dubbi sulle effettive intenzioni dei tedeschi nei confronti dei «traditori italiani» furono dipanati, quando le notizie captate dai centri di ascolto militare rivelarono che Genova, La Spezia, Trieste e altre città erano già state occupate dagli ex alleati nel volgere di poche ore.

Quando la comitiva del re giunse a Pescara erano all'incirca le sedici. All'aeroporto nessuno sapeva nulla di quell'arrivo, tanto che non fu schierata la guardia. In compenso la calma era assoluta. Il re, infreddolito e affaticato, convocò nella palazzina del comando una specie di consiglio della corona, presenti il generale Ambrosio, il generale Puntoni, l'ammiraglio De Courten (marina) e il generale Sandalli (aviazione), facenti parte del governo, ai quali si aggiunsero poi Badoglio, Acquarone, Gamerra e altri. Umberto fu lasciato con la madre.

Si trattava di decidere dove il governo dovesse rifugiarsi.
Non a Pescara o nei dintorni, come credevano molti, visto che forti malumori serpeggiavano sia tra i militari che tra i civili per quella fuga e che pochi ormai credevano nella ritirata indolore dei tedeschi. Non in Sicilia o in Tunisia, presso gli anglo-americani, come voleva Badoglio, avendo contro il re e gli altri generali. Il sud d'Italia poteva essere la soluzione, visto che città come Brindisi erano sgombre sia dalle truppe di invasione che dai germanici, ma al momento non si avevano notizie della corvetta Baionetta che fin dall'alba aveva avuto ordine di salpare per Ortona, quando si era rivelato irrealizzabile il piano, predisposto da giorni, di trasferire il governo in Sardegna.

Qualcuno proponeva di usare gli aerei, ma il re temette che la partenza di un numero ridotto di persone trasformasse il «trasferimento del governo» in fuga. C'era poi, come disse Badoglio, il problema che la regina non sopportava il volo.
Mentre queste discussioni si protraevano nella palazzina comando, Umberto, lasciata la madre, cercava di parlare con persone fidate nel tentativo di capire, una volta per tutte, quel che stava realmente accadendo.

Fu solo in quei momenti che il principe si rese totalmente conto che Badoglio aveva mentito e che le Forze armate erano state abbandonate a loro stesse. Quando, vent' anni dopo, chi scrive pose a Umberto in esilio la domanda se in quelle ore avesse collegato l'abbandono dei soldati con un possibile accordo dei vertici italiani con i tedeschi, si sentì rispondere che l'ipotesi sarebbe parsa, in quelle ore, possibile ma fantasiosa. Ma il dubbio doveva aver colpito profondamente anche l'erede al trono nelle tragiche ore di Pescara.

In quei momenti di sosta, Umberto, infatti, incontrò un amico, il principe Carlo Ruspoli, che era stato suo compagno di studi al collegio militare e che in quel momento comandava una squadriglia di aerei di stanza al campo. Ruspoli, spalleggiato da un gruppo di piloti, disse chiaramente a Umberto che «non poteva e non doveva fuggire». L'erede al trono gli diede ragione, ma aggiunse che non poteva, da soldato, disubbidire agli ordini. Ci fu un po' di parapiglia e molti giovani ufficiali minacciarono di trattenere il principe anche a costo di sequestrarlo. Lo stesso Ruspoli, spalleggiato da alcuni colleghi, si presentò al fianco di Umberto al re e a Badoglio, ponendo vivacemente il problema. «Disse Umberto che quella partenza gli pareva un errore e che voleva tornare alla capitale sganciandosi dal re e dal governo. "So che rischio la pelle, ma voglio salvare l'onore della mia casa"» (9). Il re gli rispose che doveva rispettare le disposizioni del governo. Badoglio, come sempre ansioso di far valere i suoi titoli e la sua anzianità, gli disse acidamente: «Le devo ancora una volta ricordare che lei è un soldato, porta le stellette e deve solo ubbidire».

Così il principe rimase col suo problema di coscienza insoluto. O, meglio, si attenne, come avrebbe fatto fino alla fine, agli ordini ricevuti con l'avallo del re. Né in quel momento né dopo trovò la forza di ribellarsi. Né, come vedremo, avrebbe potuto trovarla a causa del suo carattere, della sua educazione e del suo fatalismo.

Il re credeva che il governo, come aveva perentoriamente richiesto prima di partire da Roma, fosse tutto con lui o stesse sopraggiungendo. Evidentemente neppure lui sapeva che Badoglio aveva invitato solo gli esponenti militari, lasciando i civili alloro destino (10).

Quando giunse finalmente la notizia che la Baionetta era arrivata in porto, le decisioni furono prese. I reali decisero di attendere l'imbarco, previsto per la notte, presso i Bovino. Il re, nel congedarsi, raccomandò per l'ultima volta «che tutto il governo partisse compatto», poi, accompagnato dalla famiglia e dagli aiutanti, riprese la via di Crecchio. Badoglio era scomparso.

Racconta Luigi Cafiero: «La nonna [la duchessa di Bovino] stava assorta nei suoi pensieri ed era circa l'ora del tramonto quando arrivò uno dei camerieri, trafelato, dicendo che si vedevano degli automezzi arrivare lungo i tornanti del vallone. Questa volta il cancello fu aperto in velocità e tutti noi andammo ad aspettarli al portone. Era solo la famiglia reale, con qualche aiutante. La regina e tutti apparivano stanchi e la nonna fece preparare le stanze. Bice cedette di nuovo la sua al principe che, incontrandola in corridoio col valigione in mano, le disse scherzosamente che dopo quel nuovo sfratto loro due sarebbero rimasti nemici per la vita ... Quella sera nessuno cenò, solo la regina chiese qualcosa di caldo. La nonna stette a lungo con la regina e col re. Il nonno e mia madre rimasero col principe che portava con sé i sigilli di Stato» (11).

Umberto si controllava, ma era vicino alla disperazione.
Appena arrivato fu preso in disparte dal suo aiutante, di Campello, che quasi piangendo lo dissuase dal proseguire. Non trovò di meglio che rispondergli con una citazione: «In Casa Savoia si regna uno alla volta».

Poco dopo, fu proprio la duchessa a sollecitare il principe, davanti a tutti: «Vostra altezza conosce bene i sentimenti miei e della mia famiglia verso sua maestà la regina e verso Casa Savoia, mi perdoni quindi se la scongiuro nuovamente di tornare a Roma e di mettersi a capo dell' esercito e della resistenza» (12).

Umberto, che questa volta non aveva sul collo il fiato di Badoglio, rispose prontamente: «La ringrazio, duchessa, lei mi reca un grande conforto. Non ci resta che convincere Sua Maestà, mio padre».

La discussione si riaccende. Questa volta è Acquarone a ipotizzare che se Umberto tornasse a Roma, i tedeschi lo catturerebbero, lo ricatterebbero, lo torturerebbero, obbligandolo a non riconoscere l'operato del padre e a prendere il suo posto. «Già in Ungheria, con Horthy, si erano comportati così». All'idea delle torture la regina si commuove ed esclama: «Bepo, tu n 'iras pas! ». Il re, ostinatamente, ripete che ciò che ha deciso il governo va rispettato.

Ormai il principe dispera di essere ascoltato, ma l'idea di disobbedire non lo sfiora. Verso le 21 si ritira in camera e fa chiamare Puntoni, che poi scriverà: «Lo trovo in piedi, al centro della camera, a braccia conserte. "La mia partenza da Roma", mi dice subito, "è senza dubbio uno sbaglio: penso che sarebbe opportuno ch'io tornassi indietro. La presenza nella capitale di un membro della mia Casa, in momenti così gravi, la reputo indispensabile ... ". Cerco di dissuaderlo, anche perché il sovrano ha espresso il desiderio di avere con sé il principe ereditario, che rappresenta la continuità della dinastia ... » (13).

Poco dopo la comitiva reale partì per andarsi a imbarcare, e il trasferimento diventò incontestabilmente una fuga. Umberto aveva fatto in quelle ore l'ultimo tentativo di separare il destino suo e dell'Italia da quello, già segnato, di suo padre. Tornando a Roma avrebbe potuto giocarsi la vita. O cambiare la storia. Non gli mancava il coraggio di rischiare, ma era incapace di disobbedire. Era stato educato fin dall’infanzia alla sottomissione, che accettava lucidamente, masochisticamente, talvolta con dedizione quasi morbosa. In quella notte shakespeariana, cominciava per lui un’agonia che sarebbe durata cinquant’anni.


Note

1) Luigi Cafiero, Da Crecchio a S. Samuele in otto tappe, Arti Grafiche Laterza, Bari s.d. Luigi Cafiero era uno dei nipoti presenti alla scena.
2) Luigi Cafiero, op. cit.
3) Lucio Lami, Interviste confidenziali con Umberto, (a puntate), in Il Giornale, novembre 1979. Re Umberto, durante le mie interviste, smentì vivacemente di aver pronunciato la frase: «Dio mio, che figura!» attribuitagli, nel suo diario, dal generale Puntoni.
4 )Testimonianza di Ernesta Santambrogio, dama di compagnia della duchessa, presente alla scena, a Manlio Masci, in Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Feltrinelli, Milano 1964.
5) Lucio Lami, op. cit.
6) Luigi Cafiero, op. cit.
7) Enrico Caviglia, Diario (aprile 1925-marzo 1945), Casini, Roma 1952.
8) Gli storici ancora ne discutono, ma i sospetti si appuntano su Sorice e ancor più sul generale Carboni che era intimo amico di Kesselring. «Di tutti quanti potevano trattare l'intesa, da Badoglio, a Ambrosio a Roatta, presenti con la famiglia reale al Ministero della guerra, la notte precedente, il solo a non esserci tra le 23 di sera e le 4 del mattino era proprio Carboni» (Silvio Bertoldi, Apocalisse italiana, Rizzoli, Milano 1998). Altri storici, come Spinosa e Mazzetti, sostengono che la colonna principale dei «fuggiaschi», scortata da una dozzina di moderne autoblindo, fosse tale da suggerire ai tedeschi in ritirata di non attaccare.
9) Paolo Monelli, Roma 1943, Longanesi, Milano 1956.
10) Secondo la celebre ricostruzione di Ruggero Zangrandi, op. cit., il patto segreto stipulato nella notte tra l'8 e il 9 settembre da Sorice (o da Carboni) con Kesselring prevedeva che a partire fossero solo i vertici militari e i sovrani.
11) Luigi Cafiero, op. cit.
12) Testimonianza di Ernesta Santambrogio, dama di compagnia della duchessa Antonia. Di Manlio Masci, in Ruggero Zangrandi, op. cit.
13) Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele IlI, Rizzoli, Milano 1958.

 

 

Il Re di maggio. Umberto II: dai fasti del «Principe bello» ai tormentati anni dell'esilio.
di Lucio Lami
360 pag., euro 18,00 (al 12 agosto 2007)
Edizioni Ares, 2002 (Profili)
ISBN: 9788881552405
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