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Cuba libre era solo un cocktail

Viaggi nella crisi del castrismo

(Di seguito si propongono la premessa, l'introduzione e la prima corrispondenza)

Premessa

Lucio Lami - Cuba libre era solo un cocktailUna sera, a Santiago del Cile, negli anni di Pinochet, conversando con un collega, gli dissi:
- Ho sentito la tua trasmissione. Hai parlato di tre morti nei disordini di ieri, ma è evidente che quei morti non ci sono stati ....
- Amico mio - mi rispose, guardandomi con bonomia - vogliamo darla o no una mano ai democratici?

Mi ritorna in mente questa conversazione riordinando, per questo libro, un certo numero di mie corrispondenze scritte dall'America Latina per "il Giornale" di Montanelli, a cavallo fra gli anni ottanta e novanta. Esse descrivono una realtà vista da me sui luoghi ma, oggi come ieri, irreperibile su buona parte dei media e della quale gli italiani sono all' oscuro.

Vero è che, con la caduta dell'Unione Sovietica, i corifei del caudillo caraibico si sono fatti più cauti, ma l'altra faccia della realtà è rimasta nel buio.

Prima ancora che sulle sorti del socialismo latinoamericano queste pagine dovrebbero dunque far riflettere sul giornalismo nostrano. Le ho raccolte per questo. Esse sono state scritte da un renitente alla lottizzazione in anni in cui di par condicio non si poteva neppure parlare. Gli anni del giornalismo monocolore, padre dei grandi silenzi e della grande disinformazione. È soprattutto all'atteggiamento fideistico dei media che si deve l'immagine di un comunismo caraibico più gaudente che liberticida, mitizzato tramite il "Che", infiocchetta to da una storiografia compiacente, descritto dagli innamorati di Fidel e infine sublimato come paradiso perduto di un'idea di cui - senza confessarlonon si accetta il fallimento.

Chi ha visto Cuba (e l'America Latina) non dai ghetti oleografici per vacanzieri ma dalle case della gente comune sapeva da tempo quel che si nascondeva dietro i miraggi creati dalla propaganda. Il puerto escondido del socialismo realizzato non si dissolve oggi: non è mai esistito.


Introduzione

Per il dissenso, L'Avana peggio di Mosca

Miami, marzo 1994

Nel 1986, alcuni diplomatici italiani, che poi avrebbero pagato con prolungate noie il loro ardire, mi ottennero un visto d'ingresso a Cuba, obbligatorio per i giornalisti. Giunto all’Avana, faticosamente e con metodi da film sulla guerra fredda, riuscii a contattare alcuni capi del dissenso (allora sconosciuti) i quali - pur consapevoli del rischio che correvano - decisero di esporsi clamorosamente, per la prima volta, lasciandosi intervistare da me e da un collega francese. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio li incontrai, a ora tarda, nel bui pesto, su una spiaggia fuori mano dell'Avana, dove giungemmo per vie diverse, protetti dall' oscurità e dal rumore delle onde.

Aspettavo sei persone, ma ne giunsero solo tre, perché le altre si erano accorte di avere la polizia sotto casa. I tre erano: Elisandro Sanchez, vice di Ricardo Bofil ai vertici del dissenso, Adolfo Riveroed Enrique Hernandez. Quasi tutti freschi di prigione, rilasciati con la condizionale, dopo alcune severe lezioni.

Per un' ora mi raccontarono con dovizia di particolari gli orrori hitleriani che il regime perpetrava nelle carceri. Ci lasciammo come ci eravamo trovati, nel buio avevo visto le loro facce e i grandi occhiali neri di Sanchez, solo per un istante, alla luce di un cerino.

L' indomani, mentre volavo verso l'Italia, accadde ciò di cui solo più tardi ebbi notizia e solo recentemente ho conosciuto i dettagli, dallo stesso Bofil, che mi ha raccontato: "All'alba si scatenò la caccia all'uomo. Tutta l'intervista era stata registrata con microfoni direzionali, dalla strada costiera. Noi ci eravamo fida ti di lei perché qualcuno ci aveva fatto leggere il suo libro sul dissenso sovietico, ma per un attimo pensammo che fosse un provocatore.

Scoprimmo invece che eravamo stati pedinati per giorni, senza che ce ne accorgessimo. Io ebbi il tempo per rifugiarmi all’Ambasciata di Francia, dove rimasi per mesi. Gli altri amici che avevano rilasciato l’intervista, invece, vennero arrestati. La polizia li malmenò perché pretendeva che firmassero una dichiarazione nella quale lei veniva indicato come agente della Cia.

Furono giorni molto difficili. Il governo francese tenne duro. Quello italiano ricevette una protesta e la vostra ambasciata all'Avana assunse un basso profilo. Eppure, da quel momento, il nostro comitato fu riconosciuto internazionalmente e le organizzazioni dissidenti si moltiplicarono”.

Nel '90 tornai all'Avana "da turista" poiché l'ambasciata cubana a Roma non mi dava più il visto. Non avevo ancora disfatto le valigie che Margot Castro Maya, del ministero degli Interni cubano, si precipitò nella mia camera d'albergo con un dossier a mio nome sotto il braccio per dirmi di andarmene. Non volevano espellermi, per non creare un caso, ma volevano che alzassi i tacchi. Disse. Presi tempo. Riuscii a rintracciare telefonicamente Gustavo Arcos, animatore del Comitato per i diritti umani, che viveva circondato dalle "ronde popolari" che lo coprivano di insulti. Gli piombai in casa senza preavviso.

"Non oso intervistarti", gli dissi. Ma lui, nonostante le lacrime della moglie, volle parlare. Aveva già acquistato peso politico, si rivolgeva a Fidel come al suo vecchio compagno della Sierra, il regime cominciava a sfaldarsi. Molti dissidenti erano stati costretti a prendere la via dell'esilio, ma altri prendevano il loro posto.

Prima di partire, trovai il modo d'intervistare i diplomatici dell' ambasciata sovietica; il loro discorso fu lapidario: “Castro deve rassegnarsi: tutti i soldi che gli regalavamo prima non li avrà mai più. E deve cambiare".

 

 

La scoperta del dissenso

L'Avana, giugno 1986

È fatta: due esponenti dell' organizzazione clandestina per i diritti umani, per la prima volta, si sono assunti il rischio di parlare. Li ho incontrati fuori città, in riva al mare, di notte. L'impegno era di non restare in automobile per evitare che qualche cimice (i microfoni-spia) ci tradisse. Il Comitato per i diritti umani di Cuba è composto da otto membri e un segretario: il loro elenco, ufficialmente segreto, è noto alle autorità, che aspettano pazientemente un passo falso di qualcuno dei suoi componenti. Questo spiega la paura dei miei tre interlocutori e le tecniche da film giallo adottate per raggiungermi.

Abbiamo parlato per un'ora, al buio, mentre una motovedetta della polizia andava su e giù per la baia, cercando con il faro i fuggiaschi che tentavano l'espatrio in barca verso la Florida. Di tanto in tanto, arrivava nelle nostre vicinanze una coppietta che si metteva ad amoreggiare: i miei tre interlocutori si guardavano preoccupati; diffidavano persino del poco chiarore lunare e mi chiedevano di spostarmi altrove. Erano entrambi freschi di carcere. "Piuttosto che farmi riprendere", mi disse il primo, "mi lascio ammazzare" .

Per prima cosa mi fanno un ritratto del regime carcerario cubano, che conferma quello già abbozzato da alcuni fuoriusciti. Ci sono circa 140.000 prigionieri a Cuba, in buona parte politici. Le diciassette province cubane sono costellate da 68 prigioni, oltre ai campi di lavoro e ai "penitenziari aperti".

Nella sola regione dell'Avana ci sono circa 50.000 prigionieri, su una popolazione di due milioni di abitanti: un terzo sono concentrati nel carcere chiamato "Combinado del Este". Gli altri sono sparsi in prigioni ugualmente famigerate, che si chiamano "La Cabana", "ElMorro", "Guanayaj" ... In tutto sono stati censiti 120 luoghi di pena, e se ne costruiscono di nuovi.
"Io", mi dice uno dei tre, "ho trascorso sei anni a 'La Cabana', poi sono stato trasferito, per altri sei, al 'Boniato'. Il mio amico se l'è cavata con quattro anni. L'imputazione? Diffamazione del regime, deviazionismo. La cosa paradossale è che eravamo comunisti. Ci processarono senza consentirci di essere assistiti da un avvocato. Prove a carico: 'tesi di propaganda nemica'. Ci avevano perquisito le abitazioni e avevano trovato documenti ciclostilati del Partito comunista italiano, a proposito della Polonia. Li giudicarono controrivoluzionari. Lo stesso giudizio fu dato per altro materiale 'sovversivo': un testo di Carillo sull' eurocomunismo, uno di Kuron su Solidarnosc, un volume di Garaudy e uno di Fischer, libri che da voi si trovano nelle sezioni del Pci. Eravamo un gruppetto e ci presero tutti nella stessa retata; in totale, ci diedero cento anni di carcere: cento anni per 'opposizione socialista'. L'operazione fu portata a termine da Fabian Escalante, il generale che ha esportato il nostro sistema poliziesco in Nicaragua".

Il secondo "cospiratore" ascolta il collega, beve un sorso di rhum, a canna, e lo interrompe: "Quando ci hanno dimesso, a pena scontata, ci hanno detto che alla prima occasione saremmo tornati in cella. La prima occasione potrebbe essere questa".

"Gli interrogatori", prosegue il terzo, "avvengono dopo che il fisico del prigioniero è stato debilitato con torture psichiche, con mesi di oscurità assoluta (io ancora non sopporto la luce del giorno) con continui cambiamenti di cella, da quelle torride a quelle gelide, con percosse, suoni ad alta frequenza che per giorni impediscono di pensare e di dormire, con la privazione di acqua per intere settimane".

"Personalmente", racconta il primo, "sono stato rinchiuso in quel settore che noi chiamiamo 'il camposanto': celle sotterranee con porte di metallo munite di un pertugio, a livello del terreno, per far passare la tazza del cibo; niente finestre, niente suppellettili, niente luce; l'aria arriva da un tubo di metallo. Ho avuto per la prima volta mezz' ora d'aria all'aperto, in cortile, dopo tre mesi di detenzione; eppure mi ritenevo fortunato: c'erano dei miei vicini di cella che erano chiusi da sei mesi ed erano in ceppi. Il cibo era sempre lo stesso, ogni giorno: una scodella di pasta scotta mescolata a pesce macinato".

L'arrivo di due strani vagabondi insospettisce i miei interlocutori e siamo costretti a spostarci. Camminando, mi raccontano che le carceri sono tutte sovraffollate e si passano in continuazione "materiale umano eccedente". In questi giorni, una troupe della Tv francese è stata ammessa a visitare una prigione, per mitigare nell'opinione pubblica europea l'impressione causata dalle memorie del poeta cubano Armando Valladares, espulso dal paese dopo ventitré anni di prigionia. Il carcere è stato decongestionato, rimesso in ordine e i prigionieri sono stati "istruiti" per essere pronti per eventuali interviste.

"I continui spostamenti provocano guai di ogni genere: ricordo che una volta arrivarono nel mio trenta ragazzi condannati a pene leggere. Vennero messi nello stesso reparto dei criminali comuni, dai quali furono presto seviziati. Per protesta, all'ora dell'aria, i ragazzi si rifiutarono di rientrare in cella. Uscirono allora in cortile i miliziani armati di bastoni e fecero un macello. Per notti e notti fui tenuto sveglio dal ricordo del sangue che colava dal muro di cinta".

"Non c'è legge, nelle prigioni", dice il secondo, "e non c'è pietà. Anch'io, poco dopo essere stato incarcerato, fui colpito da una vicenda terribile. Un demente incarcerato venne preso da una crisi di follia, durante l'ora del pasto. Le guardie - per farlo tacere - gli fratturarono le mani con il calcio dei fucili, finché gli altri prigionieri cominciarono a gridare 'macellai', Uno dei detenuti politici, un testimone di Geova, si mise in ginocchio davanti ai soldati chiedendo pietà per il pazzo, Gli spararono a bruciapelo e lo uccisero. È uno dei loro martiri: le prigioni sono piene di testimoni di Geova".

Le pene più dure, secondo i miei interlocutori, colpiscono coloro che, dopo essere stati fedeli collaboratori di Castro, si permettono di muovergli delle obiezioni, soprattutto sul tema della sudditanza a Mosca. "Ne ho incontrati a decine, in carcere, di eroi della rivoluzione castrista. Ricordo il comandante Eloy Gutierrez Monoyo, fedelissimo di Fidel; il poeta Ernesto Diaz e l'intellettuale marxista Ariel Hidalgo; Gustavo Arcos, eroe dell'assalto alla caserma Moncada ed ex ambasciatore in Belgio, compagno della prima ora di Fidel, torturato e ora sepolto nell'Edificio n. 3 del 'Combinado del Este', da dove non esce da quattro anni; il poeta Edmigio Lopez, comunista, e altri ancora. In carcere ho conosciuto anche Marta Frayde, che ancora nel 1985 era delegata cubana all'Unesco. Tornata in patria per dimettersi, a causa delle sue divergenze con Castro, fu arrestata e condannata a ventinove anni di carcere. Ora, miracolosamente graziata, vive a Madrid. A proposito, lo sa che Cuba ha il record delle donne e dei minorenni detenuti?".

È notte fonda quando lasciamo la spiaggia. I miei ospiti rifiutano di farsi accompagnare a casa, ma si disperdono per luoghi diversi e poco illuminati: "Non che serva a molto, ma un po' di prudenza non guasta. In ogni caso, sanno quasi tutto. E lei non si faccia illusioni, come ficcanaso: a rintracciarla basta la targa dell' auto".

Le targhe, a Cuba, sono assegnate in modo da facilitare il compito dello spionaggio: sono gialle per i privati, azzurre per gli statali, marroni per i giornalisti stranieri, nere per i diplomatici, verdi per i militari e rosse per le organizzazioni turistiche. Il colore provoca la prima selezione. Al resto pensano i comitati di vigilanza: ce n'è uno in ogni isolato, insediato in un ex negozio, e vigila a tempo pieno. Di ogni cittadino si sa a che ora esce, quando rientra, chi incontra, che tenore di vita conduce, chi frequenta e con chi fa l'amore. Solo il turista di passaggio non si accorge di nulla: sui torpedoni speciali e sui taxi turistici (che registrano comunque dove vi recate) veleggia verso le spiagge riservate agli stranieri. Là il mare è meraviglioso e il clima ventilato. Ai cubani è vietato l'accesso, fatta eccezione per il personale di servizio e per quello dello spionaggio. Perché Cuba ha due facce, ma a occhio nudo se ne vede una sola, splendente nel sole.

 

Cuba libre era solo un cocktail. Viaggi nella crisi del castrismo.
250 pag., 15,49 euro (al 12 agosto 2007)
Spirali (collana L'alingua.Saggistica) 1995
ISBN: 9788877704177
1a ed. 1995
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