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Garibaldi e Anita corsari
(Di seguito si propone il capitolo XV)
XV
Sotto
una lucerna assediata dalle farfalle notturne, Garibaldi e l'abate
leggevano e rileggevano la lettera colma di svolazzi che il legale
di Laguna, contattato attraverso la loggia, aveva inviato per nave
dal Santa Catarina.
Nei registri di Laguna - diceva la missiva - Ana
Maria de Jesus, figlia di Bento Ribeiro da Silva, risultava ancora
coniugata con Manoel Duarte da Aguiar, di professione calzolaio.
Il nome di Manoel Duarte non compariva nel registro dei decessi,
né esistevano certificazioni della sua morte.
Nei luoghi dov'era conosciuto si raccoglievano testimonianze
contrastanti: taluni sostenevano che il Duarte era morto durante
i primi giorni della Repubblica, altri assicuravano di averlo visto
a Desterro, in epoca successiva. In tali condizioni - concludeva
lo scrivente - sarebbe stato assai arduo il tentativo di ottenere
documenti basati su una presunzione di morte.
«È la vendetta dei preti di Laguna»
esclamò Garibaldi, dopo un' ennesima rilettura.
«Supplet Ecclesia» sospirò l'abate.
«Che vuol dire?»
«Che la Chiesa dà, la Chiesa toglie, la Chiesa ridà»
spiegò Semidei, con la voce venata di ironia. «Dobbiamo
risolvere tutto qui: la legge canonica prevede che, in casi speciali,
le certificazioni prematrimoniali vengano sostituite da testimonianze
giurate. Vedrò di parlare col Vicario generale. Voi, con
i vostri amici, cercate dei testimoni.» Si trattava di rintracciare
alcune persone in grado di dichiarare, davanti a un notaio, che
i due promessi sposi non avevano impedimenti a contrarre le nozze.
La piccola comunità dei patrioti fu mobilitata.
Gli amici framassoni si incaricarono di segnalare il notaio che
avrebbe potuto raccogliere e controfirmare le testimonianze giurate;
il clan dei «carbonari» si mise in caccia di elementi
fidati disposti a dare una mano; il promesso sposo fece il giro
dei commercianti liguri, quasi tutti suoi clienti e amici.
Il 21 marzo 1842, Garibaldi iniziava davanti al notaio
Juan Pedro Gonzales di Montevideo le procedure speciali per poter
sposare Ana Maria de Jesus «secondo il rito di Santa Madre
Chiesa, Cattolica, Apostolica, Romana».
Dopo di lui, un commerciante ligure, Raffaello Bruschi,
di trentaquattro anni, deponeva sotto giuramento di conoscere Giuseppe
Garibaldi fin da quando abitava a Genova e di saperlo celibe.
Un altro commerciante, di quarantaquattro anni, tale
Angelo Manechini, sottoscrisse di conoscere Garibaldi dall'infanzia
e di essere certo che non si era mai sposato. Infine venne il turno
di Giuseppe Canepa, commerciante di quarant'anni, che firmò
una testimonianza analoga alle precedenti.
Il notaio autenticò tutte le dichiarazioni
giurate e, in compagnia del promesso sposo, si recò il giorno
stesso dal Vicario generale. Qui, Garibaldi dichiarò per
scritto e sotto giuramento di non avere antecedenti che gli impedissero
di sposarsi.
Anita avrebbe dovuto fare altrettanto, ma il Vicario, per non incomodarla,
non l'aveva convocata. Aveva invece disposto che il notaio si recasse
a incontrarla nella sua casa, per raccogliere la deposizione.
La mattina del 24 marzo, Juan Pedro Gonzales si recò
puntualmente in Calle del Porton. A riceverlo c'era una loquace
vecchietta che si presentò come la madre della promessa sposa.
Il colloquio con le due donne fu garbato come un
minuetto e soprattutto breve. Anita, che aveva imparato a scrivere
il suo nome, sia pure grossolanamente, si astenne dal firmare le
carte.
Il giorno stesso il notaio presentò al Vicario
generale, che era anche provisore, il suo verbale: «Io, notaio,
in virtù dell'ordine verbale ricevuto dal provisore, mi sono
recato nell'abitazione di doña Ana Maria de Jesus la quale,
a mia domanda, ha risposto di essere nubile, figlia di Bento Ribeiro
e di Maria Antonia de Jesus. Ha inoltre dichiarato che, essendo
libera, desidera sposarsi con dom José Garibaldi. Sulla sua
fede e sulla sua parola ha dichiarato non esistere, per sua parte,
nessun impedimento al matrimonio. Era presente sua madre che le
ha dato il suo consenso e le ha impartito la benedizione materna,
dopo aver dichiarato che non le consta esistano, per i due promessi,
impedimenti al matrimonio. Le due donne non hanno firmato, dichiarando
di non saperlo fare, ma hanno contrassegnato il documento con una
croce, cosa della quale do testimonianza. Firmato: Juan Pedro Gonzales,
Notaio»
Il Vicario, ricevuto il documento, vi fece scrivere
in calce: «Si approva, in quanto espletate le formalità.
Si proceda all'esposizione delle pubblicazioni, per tre festività
consecutive, nella chiesa parrocchiale di San Bernardino. Non risultando
impedimenti, si celebri il matrimonio, dopo che entrambi i contraenti
si saranno confessati».
Apposti i timbri, il Vicario mandò un biglietto
al parroco di San Bernardino, il rettore Lorenzo Fernandez, per
comunicargli che riduceva i giorni dell'esposizione delle pubblicazioni
a uno soltanto: l'indomani.
Dom Fernandez non mosse obiezioni e incaricò
il viceparroco, dom Zenón Aspiazu, di celebrare le nozze
la mattina del 26 marzo.
La vigilia fu burrascosa. Anita, che provava un abito
grigio chiaro col colletto bianco, rimediato per la cerimonia, sembrava
temere che qualcosa di inatteso potesse ancora infrangere il suo
sogno.
Garibaldi, che si era destato all'alba e subito era
salito sul terrazzo, guardava, come dalla tolda di una nave incagliata,
le nubi addensarsi sul porto.
A metà mattina fu raggiunto dall'abate, che
notò il suo malumore.
«Perché pretendete anche la confessione?» chiese
Garibaldi, guardandolo per la prima volta come un prete.
«La Chiesa dà, la Chiesa prende» disse l'abate,
mellifluo.
«E che cosa dà?»
«Per esempio, questo» disse Semidei estraendo dalla
tasca un pacchetto. Era un poro per il mate, foderato d'argento,
con la cannuccia cesellata.
«È il mio regalo di testimone alle nozze. Per Anita
ho preferito un oggetto religioso, ma per il mangiapreti ...»
Garibaldi si commosse: «E per questo la Chiesa che cosa pretende
in cambio?».
«Per adesso nulla, ma più avanti bisognerà pensare
al battesimo di Menotti» disse l'abate ridendo.
Cominciava a tuonare.
L'indomani, di buon mattino, Garibaldi e Anita si
presentarono nella chiesa deserta di San Bernardino, seguiti da
Semidei e da Feliciana García Billegas, un'amica di Anita,
invitata come testimone.
Una folata di vento li seguì fin quasi all'altare,
entrando dal portale aperto. Il giovane viceparroco salutò
il gruppetto con un sorriso, prima dell'Introibo, poi celebrò
frettolosamente. Al momento dello scambio degli anelli sorrise per
la seconda e ultima volta, poi disse agli sposi qualche parola di
circostanza, commentando la formula del rito: «Ciò
che Dio ha congiunto, l'uomo non separi».
Al termine del sermone, Anita bisbigliò a
Garibaldi, che era rimasto assorto per tutto il tempo: «A
che cosa stavi pensando?».
«Ascoltavo» rispose.
In realtà, si stava arrovellando: che cosa ci faceva l'ammiraglio
Brown da qualche giorno davanti al porto di Montevideo, con quattro
navi da guerra, senza sparare un colpo?
Quando uscirono dalla chiesa, c'era una voglia di
sole nell'aria. Anita era pervasa da una felicità melanconica:
durante la messa, inevitabilmente, era riandata col pensiero alle
sue prime nozze e, di riflessione in riflessione, era arrivata a
porsi la solita domanda: perché José voleva battersi
ancora? Non ne aveva avuto abbastanza?
Soltanto a casa si sentì completamente felice:
prese Menotti tra le braccia, lo baciò e disse forte: «Da
oggi, siamo tutti Garibaldi».
Poche sere dopo, in Calle del Porton arrivarono ad
uno ad uno, come cospiratori, molti patrioti italiani e alcuni uomini
di governo. C'erano Gianbattista Cuneo, Napoleone Castellini, Giovanni
Risso, Giovanni Battista Capurro e l'immancabile abate Semidei.
Accompagnavano tre delegati della Commissione governativa per il
riarmo della flotta: Francisco Muñoz, il capitano di marina
José Murature e il dottor Florencio Varela, del ministero
della Guerra. «Il momento è arrivato» disse quest'ultimo.
«Il governo riconosce di aver commesso un errore quando, per
ragioni di economia, si disfece di buona parte delle sue navi, ma
ora intende correre ai ripari. Il guaio è che, in vista delle
azioni militari che sarà necessario intraprendere, il governo
considera il commodoro Coe troppo vecchio e sprovvisto di inventiva.
Noi» aggiunse, guardando Garibaldi «vorremmo che lei
lo affiancasse, dando il contributo della sua notoria intraprendenza.»
Il gruppo degli italiani tratteneva a stento l'esultanza,
ma Garibaldi rimase taciturno .
«No» disse infine. «Non credo nei
comandi a due teste. Poi, conosco l'opinione di molti ufficiali
di carriera che mal tollererebbero di vedersi scavalcati da uno
straniero. Infine, conosco il parere dello stesso Coe sul mio conto.
Recentemente, visitando la sua nave ammiraglia con un ex ufficiale
della marina sarda, ho fatto un'istruttiva esperienza. I due si
parlavano come fanno gli appartenenti a una casta, praticamente
ignorandomi. Il mio compatriota ha addirittura dichiarato il suo
entusiasmo per la disciplina che si notava a bordo e che io "non
saprei tenere". Mi è sembrato che Coe apprezzasse molto
la spiritosaggine.»
Cercarono di ammansirlo. Invano.
«O il comando, o nulla» disse asciutto Garibaldi che,
trascorrendo i suoi giorni al porto, ben conosceva la situazione
della Marina. E l'ebbe vinta.
Il governo dell'Uruguay, che da un lato temeva un
attacco a Montevideo e dall'altro voleva rassicurare gli alleati
delle province argentine di Entre Rios e Corrientes, sollevate si
contro Rosas, aveva urgente bisogno di assumere il controllo dei
due grandi corsi d'acqua che sfociano nel Rio de la Plata: il Paraná
e l'Uruguay. Tra quei due fiumi non si battevano solo le milizie
delle regioni ribelli, ma si scontravano gli eserciti di Oribe e
di Rivera. Quest'ultimo, lasciata la conduzione politica dell'Uruguay
nelle mani del presidente del Senato, era sceso con le sue schiere
tra i due fiumi, pur conoscendo la superiorità di uomini
e di mezzi dell'avversario.
Per superare la crisi navale, gli uruguaiani avevano
dapprima tentato di corrompere l'ammiraglio Brown e di comprarlo
- come s'usava allora - con l'intera flotta,. Fallita l'operazione,
avevano deciso di riorganizzare la Marina e nello stesso tempo di
preparare una squadra corsara che risalisse il Rio Paranà
o il Rio Uruguay, impedendo il traffico fluviale del nemico e rifornendo
gli eserciti amici, fino a Corrientes.
Coe si era dichiarato in completo disaccordo con
quest’ultimo progetto: alla luce del buonsenso, considerava
una spedizione sui fiumi inevitabilmente suicida. Ma il governo,
ormai deciso, aveva colto al balzo l'occasione per liberarsi del
commodoro e si era rivolto all'italiano. Garibaldi aveva sulla spedizione
la stessa opinione di Coe, ma era più bramoso di battersi,
più giovane e più adatto a una guerra corsara.
La squadra navale che ereditava, in un coro di mugugni,
era ridotta a poca cosa: il brigantino Pereyra, con undici
bocche da fuoco, la corvetta Constitución, con diciotto,
e la vecchia goletta da trasporto Procida, costruita in
Italia, rivenduta al governo dai fratelli Antonini che l'avevano
usata sulle rotte dell'Africa, armata alla meglio con cinque cannoncini.
Garibaldi affidò la Pereyra a un
giovane capitano di lunga esperienza, Manuel Arana Urioste, che
portava una benda piratesca sull'occhio sinistro, la Procida
all'amico sperimentato Luigi de Agostini, genovese, e scelse ad
uno ad uno gli altri ufficiali, tutti uomini di valore, dal vecchio
Manoel Rodriguez, scampato a Laguna dal naufragio della Rio
Pardo, agli italiani Pocarobba, Vallerga e Borzone.
Il 22 giugno, la squadra era pronta a salpare. Il
segretario alla Guerra Zafrategui salì per il commiato a
bordo della Constitución e consegnò a Garibaldi
il plico delle istruzioni. «Vostra Signoria» disse «avrebbe
nulla in contrario ad aprire il plico solo dopo aver superato l'isola
di Martin García?»
La segretezza era diventata un incubo, tanto più
che in quelle ore il generale Oribe stava occupando le rive del
Paraná.
Garibaldi partiva davvero per una missione suicida.
L'isola di Martin García era piantata come
un fortino nel bel mezzo del Rio de la Plata, a sole 25 miglia da
Buenos Aires, proprio di fronte alla foce del Paraná e dell'Uruguay,
ed era presidiata dagli argentini. C'era chi dubitava che la squadra
di Garibaldi arrivasse a superarla.
Era il pomeriggio del 23 giugno quando vennero sciolte
le vele, ma solo col calare della notte le navi si allontanarono.
L'ora era stata scelta in modo che nessuno potesse vedere che direzione
prendevano.
Poco prima, Garibaldi si era congedato dai suoi,
in casa del presidente della Repubblica, dove Anita era stata invitata,
in quelle ore di commozione, da doña Bernardina Rivera.
Erano trascorsi cento giorni dalle loro nozze.
-» Garibaldi
e Anita corsari, di Lucio Lami
221 pag., 7,80 euro (marzo 2008)
Editore TEA, 2002
Prima edizione Arnoldo Mondadori Editore, 1001
ISBN: 9788850200726
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