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Giorni di guerra

Un inviato nei conflitti dell'ultimo quarto di secolo

(Di seguito si propongono la prefazione e il primo articolo pubblicato)

Prefazione

Lucio Lami - Giorni di guerra - In copertina: Lucio Lami con i guerriglieri dell'Angola, nel 1985. Foto di Fabrizio de ArcaineLa mia generazione, quella arrivata al giornalismo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, è stata l’ultima ad accedere alla professione «per concorso», cioè attraverso un periodo di selezione. Sconosciuti, ci presentavamo impavidi ed asfissianti ai direttori e ai caporedattori dei quotidiani per essere accolti nella ciurma dei ragazzi di bottega. Non ci venivano chieste tessere di partito, né raccomandazioni. Per mesi, dando la caccia alle sedie lasciate vuote dagli assenti, facevamo un po’ di tutto, gratuitamente o quasi, imparando il mestiere, nell’attesa di essere notati e giudicati degni di assunzione, nel giorno imperscrutabile della scrematura.

Vivevamo di ambizioni, di credito nei ristoranti e di esaltanti letture: Barzini, Lilli, Montanelli, Piovene, David, Monelli, Vittorio G. Rossi e via elencando: non c’era, a seconda dei gusti, che l’imbarazzo della scelta. I commentatori politici ci interessavano poco: per noi, i giornalisti «veri» erano i grandi inviati, che sentimentalmente collegavamo ad altri padri putativi, da Hemingway a Dos Passos, da Londres a Saint-Exupéry.

Nei momenti di esaltazione o di depressione giuravamo che, prima o poi, saremmo stati nel novero. Il «Palazzo», allora, non ammaliava nessuno. Quant’è passato? Solo un quarto di secolo, o poco più. E fa una certa impressione leggere oggi su Le Monde: «Come mai dobbiamo ristampare, a cinquant’anni di distanza, i grandi reportage di Albert Londres per accorgerci che nei nostri giornali il tono è cadente, la prosa anemica, la visuale ristretta, come se nessuno osasse più? Per questa crisi del reportage, che è europea, sono state trovate giustificazioni labili: i charter, il mondo reso più piccolo e banale, l’immagine portata a domicilio. Saremmo entrati in un mondo che non vuole più essere raccontato come prima, ma solo mostrato al telegiornale della sera e commentato l’indomani negli editoriali. Che sciocchezza!».

Se la situazione è questa, le cause vanno ricercate nelle tre malattie dalle quali il reportage è stato contagiato in anni non lontani: quella sociologica, quella semantica e quella ideologica.

Sul finire degli anni Sessanta, la sociologia impose il suo dictat nell’informazione. Ben presto l’inchiesta giornalistica si trasformò in sottoprodotto sociologico nel quale i dati statistici prendevano il sopravvento sulle testimonianze dirette, i problemi diventavano più importanti dell’uomo, l’elaborazione delle notizie più delle notizie. Ai neofiti del mestiere si cominciò a spiegare che quella dell’inviato era una figura romantica ed obsoleta, estranea alla civiltà del computer, che una buona documentazione ufficiale o un elaborato specialistico valevano di più di qualsiasi inchiesta giornalistica. E fu allora che la categoria si imbottì fino alla saturazione di chierici e l’editoria di specialisti di mercato, di amministrativi «taumaturgici». Nasceva un giornalismo senza giornalisti, fatto di funzionari sedentari, di sociologi, di aruspici e di inventori di gadgets.

In quel tempo, fu anche rumorosamente annunciata la nascita di una nuova scrittura, la scrittura giornalistica appunto, che doveva essere diversa da quella della letteratura, impersonale e omogeneizzata, tanto che da quel momento, su molti giornali, gli articoli apparvero come fossero tutti scritti dallo stesso estensore. Contemporaneamente, si seminò a piene mani il sospetto sulla «forma», sullo stile personale, retaggi passatisti ai quali veniva contrapposta la neolingua, espressione del giornalismo sociologico e politicizzato. La neolingua, nella sua uniformata povertà gergale, preparava il palato della pubblica opinione all’assenza di sapori e all’accettazione di dosi sempre più massicce di agenzie, come fonte alternativa all’indagine autonoma ed indipendente.

Il virus dell’ideologia trovava a quel punto terreno fertile, tanto più che da noi non si era mai cessato di prediligere la dissertazione e non ci si era mai votati, completamente, alla religione anglosassone della notizia. Nel quadro di un giornalismo fortemente ideologico, nel quale i giornalisti diventavano sempre più i rappresentanti dei partiti all’interno delle redazioni, il grande reportage appariva ormai, a molti, come un elemento anomalo e dirompente, incontrollabile e capace di fracassare la simmetria consolidata dei compromessi.

Oggi, il peggio è passato: gli articoli non sono più così sentenziosi, la buona scrittura ha ritrovato i suoi estimatori, molti ideologi di ieri si sono trasformati in flagellanti pentiti.

Restano, in attesa di verifica, quegli anni difficili, durante i quali a fare l'inviato nella forma tradizionale eravamo rimasti pochissimi, quasi tutti sopravvissuti in situazioni eccezionali. Oggi come allora, quelle nostre corrispondenze appaiono anomale: offrono una visione della realtà, toccata con mano, drammaticamente diversa da quella generalmente offerta alla pubblica opinione. Corrispondenze ai limiti della contro informazione, voci sommerse dal coro, che descrissero la realtà afghana anni prima che l'argomento si diffondesse sui giornali, il traffico di armi con Teheran anni prima che esplodesse l'Irangate, che raccontarono della mainmise della Siria sul Libano, quando ancora i mass media favoleggiavano di «cantonizzazione», che rivelarono le stragi dello Chouf, quando l'attenzione della stampa era immobile su Sabra e Chatila, che testimoniarono dell'attacco mortale di Damasco contro Arafat quando i nostri ministri lo ridicolizzavano per televisione; che rivelarono la realtà angolana, dall'interno, quando tutti gli organi d'informazione internazionale copiavano fedelmente le agenzie propagandistiche di Luanda...

Ecco, se una ragione c'è, forse, per cui valga la pena di raccogliere in volume queste corrispondenze - tutte apparse su «Il Giornale» - è che esse possono servire ancor oggi come consultazione alternativa. E a futura memoria.

Quello dell'inviato è un mestiere essenzialmente controcorrente. Mestiere che isola dagli amici, dai riti cultural-mondani, dagli stessi colleghi. Mestiere che coinvolge la famiglia in maniera talvolta punitiva. Mestiere malpagato, in confronto ai rischi e ai pericoli che comporta. «Perché l'ha scelto?», mi domandano spesso. E la risposta non è cosi facile. Forse, una delle maggiori attrattive sta in questa possibilità di assistere agli sconvolgimenti del mondo da un posto di prima fila. C’è anche il gusto, un po' ironico, di sentir pontificare - a posteriori - quelli che non hanno visto nulla: molti tra i politici, gli esegeti, i maîtres à penser.

Come diceva Saint-Exupéry, «L'essenziale non sta nelle robuste soddisfazioni del mestiere, né nelle sue miserie, né nei suoi pericoli, ma nel punto di osservazione al quale ci innalzano».

Nei confronti del potere, la segreta gratificazione sta sicuramente nel non serviam. Ma una delle molle più forti si colloca in un doverismo quasi involontario, prodotto dallo stesso susseguirsi delle esperienze. Perché dopo, quattrocentomila chilometri dopo il primo reportage, con la mente segnata da tanti fatti straordinari visti dalle prime file, con negli occhi bellezze irripetibili o spettacoli atroci come le mattanze di profughi in Cambogia, con nelle orecchie le antiche musiche africane o le grida dei bambini iraniani mandati ad aprire varchi sui campi minati... Dopo, non restano che due strade: il cinismo o la ricerca di una morale. Ed in quest'ultima, anche un'attività «irregolare» e randagia come quella dell'inviato acquista un senso non occasionale.

Milano, giugno 1987

 

Sul fronte Iraq-Iran

Abadan: buio a mezzogiorno

Dallo Shatt-el-Arab, settembre 1980

Le sterminate raffinerie di Abadan sono in fiamme e qui, tra i soldati che le circondano, si assiste ad un lugubre spettacolo da apocalisse: è sceso il buio in pieno giorno, milioni di barili di greggio alimentano questo mostruoso bruciatore e dalle più grandi installazioni petrolifere del mondo si leva una colonna di fumo nero, di proporzioni mai viste, che oscura tutto il cielo, al punto che i fotografi sono in difficoltà per le riprese. La spera del sole appare solo a tratti, come una luna artificiale: ne spiove un calore morto e asfissiante, saturo di gas.

Avevo chiesto al colonnello Muttawa di portarmi sulle linee ed eccomi accontentato, ma questa è una guerra strana con prime linee dove le fanterie hanno solo il compito di stringere in cerchio una città che per ragioni politiche non può essere forzata, armi alla mano, ma solo colpita dall'alto e al cuore, un cuore che pompa petrolio: i quartieri civili, in gran parte deserti, non vengono toccati.

Sono assordato dai colpi delle artiglierie e dai sibili dei missili terra-terra che vengono lanciati dalla riva sinistra dello Shatt-el-Arab: da Abadan, gli ultimi gruppi di resistenti iraniani rispondono con accanimento. A quindici chilometri dalla città, verso il nord, c'è Khorramshar che gli iracheni hanno circondata per poi proseguire verso Ahwaz, centoventi chilometri più a nord. È rimasto questo piccolo fronte insicuro, tra le due città vicine, nel quale la resistenza è attuata dagli iraniani con un pericoloso lavoro di infiltrazioni. Percorro il fronte tra trinceramenti e casematte, nascoste nei palmeti che costeggiano il fiume: si cammina curvi, sotto il livello del terrapieno, perché i cecchini sparano su tutto ciò che si muove.

Sull'altra riva del fiume il terreno è egualmente insicuro, le infiltrazioni a pettine hanno creato confusione tra terra occupata, terra non ancora occupata e zone non controllate. In mezzo, corre maestoso il fiume della discordia, gioiello di quello che fu uno dei luoghi più lussureggianti dell'antica Mesopotamia, ridotto oggi ad un'enorme massa di acqua e petrolio che scorre verso il mare.

La zona è paludosa e questo spiega l'assenza di carri: le piste che portano al fiume o se ne distaccano sono ingombre di mezzi su ruote. La strada che da Bassora va ad Al Khali, cioè verso la foce del fiume dove si inoltrano i grandi tubi delle pipelines, è stata interrotta dagli iraniani che hanno centrato l'unico ponte in ferro con assoluta precisione. Per questo la zona a sud della città, l'Abadan Island, è diventata un'enorme terra di nessuno sulla quale gli iracheni non sbarcano difettando di natanti e di mezzi anfibi.

È stata, l'ultima, una notte che mi ha riportato agli angosciosi ricordi d'infanzia, quelli dei bombardamenti di Milano. Il cielo era illuminato dai bengala e dalle traccianti: il tambureggiare della contraerea si mescolava al boato delle esplosioni e al sibilo dei missili. Quasi non bastasse, le mitragliatrici, piazzate sui tetti, si erano messe a sparare forsennatamente, non si sa se per una sorta di scaramanzia o perché i fanti iracheni credessero veramente di poter abbattere i Phantom in quel modo.

Stamane ho potuto fare un rapido sopralluogo attorno alla città e una specie di bilancio: erano stati colpiti impianti a Bassora, ad Az Zubair e lungo la strada per Bagdad. Ancora una volta, la guerra era venuta dal cielo. Ormai lo hanno capito tutti. Solo i soldati iracheni, nel loro fervore, pensano che non sia cosi e danno grande importanza all'occupazione del suolo, sia pure desertico. Stamane una lunga schiera di carri è passata sferragliando sul ponte di cemento che attraversa lo Shatt-el-Arab e che l'aviazione iraniana non ha ancora colpito: dalle torrette i capi carro tenevano levato il braccio nel segno della vittoria. Marciavano verso Ahwaz convinti di dover proseguire ancora, ma probabilmente li si fermeranno: il presidente Saddam Hussein, dopo la visita del suo collega pachistano, ha dato segni di ammorbidimento: dice che è disposto a sospendere i combattimenti se Teheran «dirà sinceramente di voler riconoscere i diritti degli iracheni». Per la prima volta, Hussein non ha specificato quali.

Lasciato lo Shatt-el-Arab, con un viaggio fortunoso mi dirigo con il primo gruppetto di colleghi, cui è stata concessa l'autorizzazione, nel territorio iraniano occupato dagli iracheni, lungo il confine nord nella zona dell'altopiano di Kabir.

Mehran, che è segnata sulle carte locali come una cittadina ma che ha le dimensioni di un nostro borgo di campagna, si trova ai piedi delle montagne dalle quali scende una falda d'acqua che consente la vita ai pochi abitanti confinati quaggiù con alle spalle la catena montuosa e di fronte, verso l'Iraq, trenta chilometri di deserto. Ci spingiamo in questo scatolone di sabbia su veicoli militari ripercorrendo la pista tracciata quattro giorni fa dai T-62 iracheni. A metà strada incontriamo una casamatta semidistrutta, il segno del vecchio confine, dopodiché entriamo nel territorio conquistato che altro non è se non un'enorme porzione di deserto.

Le dune sono ancora solcate dalle tracce dei cingoli, dalle quali si capisce facilmente che i carri hanno «passeggiato» uno a fianco all'altro, senza trovare alcuna resistenza. Unica traccia di guerra, un vecchio carro M-40 iraniano rivolto verso Mehran, evidentemente colpito mentre cercava di mettersi in salvo.

Sinceramente, non si capisce come l'aver strappato un po' di chilometri di deserto possa servire agli iracheni per piegare l'Iran. Ad ogni modo, fatti i calcoli in base alla dislocazione delle truppe, risulta evidente che l'esercito di Bagdad non solo ha qui riconquistato quegli ottocento chilometri quadrati di terreno che nel 1975 erano stati ceduti controvoglia allo Scià, ma anche una fetta di territorio iraniano valutabile attorno ai due mila cinquecento chilometri quadrati.

Mentre arriviamo, il cannone tuona ancora e le truppe stanno compiendo una nuova rapida corsa in avanti di quindici chilometri. Proseguendo a zig-zag tra le montagne, gli iracheni potrebbero piombare su Shahabad ed allinearsi cosi con le altre truppe che più a sud puntano da Amara verso Dezful e più a sud ancora, oltre Ahwaz. Gli iracheni avrebbero cosi raggiunto il loro obiettivo piantando tre capisaldi in territorio nemico, parallelamente alloro confine e conquistando una fascia di .terreno da nord a sud larga circa centoventi chilometri.

In effetti, tale fascia non è occupata, ma in zona desertica i capisaldi ne possono consentire il controllo. È questo un altro dei motivi per cui Saddam Hussein sembra ora disposto ad ascoltare le varie delegazioni di mediatori che qui si susseguono.

Mehran è deserta. La gente è fuggita prima che arrivassero le truppe nemiche. È rimasta solo qualche famiglia di contadini, nei cui orti pascolano in libertà alcune vacche magrissime. Sulla piazzetta circolare, dalla quale si dipartono a croce quattro vialetti ornati di palme, rumoreggiano i soldati stipati sugli automezzi militari. Gli altoparlanti trasmettono musiche marziali che il vento porta via assieme ai manifesti politici strappati dai muri e a una quantità di cartoline postali che ritraggono Khomeini inginocchiato nella moschea di Teheran.

Chiedo al capitano che mi accompagna che fine ha fatto la gente del luogo. Risponde: «Non dev'essere molto lontana e finirà per ritornare», ma non mi sembra convinto. Il blitz contro il nulla non affascina questi ufficiali che spesso hanno studiato in accademie straniere, ma esalta la truppa, galvanizzata dalle trasmissioni propagandistiche della radio, che ancor oggi gracidava: «Questa è la nostra seconda Al Qadisiah», alludendo all'ultimo trionfo di questo popolo sugli odiati persiani, un trionfo che risale all'ottavo secolo.

-» Giorni di guerra. Un inviato nei conflitti dell'ultimo quarto di secolo.
305 pag., Euro n.d.
Edizione "I libri del Premio Max David", a cura di www.lampidistampa.it, 2006
ISBN: n.d.
1a ed. 1987 - Mondadori

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