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Dai confini dell'impero

Lettera agli americani

(Di seguito si propongono l'introduzione e il capitolo "Quale filosofia?")

Lettera agli americani

Copertina libro: 'Dai confini dell'impero', di Lucio LamiCari alleati,
appartengo a quella generazione di europei ai quali è stato insegnato a scuola ad amarvi. E anche se un approfondimento dei rapporti storici fra i nostri due paesi mi ha posto talvolta di fronte ad episodi sconcertanti, questo amore non si è mai intiepidito, consapevole come sono del primato dell'Occidente libero sulle dittature dell'Est e del principio che la democrazia, anche nella vostra versione, è pur sempre il meno peggiore dei sistemi.

Forte di queste convinzioni, ho speso buona parte del mio tempo e del mio impegno professionale a studiare il campo avverso, quello dell'Est, nel tentativo di capire che cosa lo rendesse refrattario al richiamo della libertà. Negli ultimi cinque anni, ho viaggiato ininterrottamente, e spesso da clandestino, lungo i confini dell'Impero Sovietico, nelle zone più dolenti del mondo: Vietnam, Cambogia, Laos, Afghanistan, Iran, Paesi del Golfo, Corno d'Africa, Libano, lungo quella linea che ha visto i successi espansionistici dell'Urss e le vostre ripetute disfatte.
Per paradossale che possa sembrare, questo pellegrinaggio giornalistico tra guerriglie male armate e lager chiamati «campi profughi», anziché confermarmi nelle mie convinzioni ha finito per crearmi forti dubbi non solo sulla sorte futura dell'Occidente, ma soprattutto sullo stato attuale della nostra amicizia.

Sicché oggi molti europei come me, mentre rifiutano di schierarsi con quei pacifisti che vorrebbero bloccare l'installazione dei missili americani in Europa, all'insegna del «meglio rossi che morti», non possono non domandarsi con angoscia quale presidente degli Stati Uniti troverebbe mai la forza, la tempestività e il consenso per usarli, in caso di attacco sovietico all'Europa, soprattutto nel caso di un attacco con armi chimiche o genetiche.

Gli europei si chiedono anche quale politica estera possano sviluppare gli Stati Uniti per evitare che si arrivi a quel momento cruciale, dopo che la tecnica del fatto compiuto si è già rivelata vincente per l'Urss, in quasi tutti i punti del globo dove Mosca ha deciso di premere, dal dopoguerra a oggi. In pratica, ci appare spesso incomprensibile la posizione americana davanti all'ipotesi che l'Unione Sovietica vinca la guerra in Europa senza combatterla, semplicemente con la pressione del suo apparato bellico, tanto più che i sovietici, accurati interpreti di Clausewitz, continuano a considerare la guerra come un prolungamento della politica e non come un prolungamento dell'economia, secondo l'accezione americana.

Tutta la strategia difensiva dell'Europa è imperniata sul presupposto di un eventuale intervento degli Stati Uniti. Ma non c'è leader politico o militare che io abbia incontrato, dall'Afghanistan - non ancora sottomesso - al Libano, che non mi abbia ripetuto: «L'errore più diffuso consiste nel credere alle promesse d'aiuto degli Stati Uniti». Le garanzie Usa sono diventate oggetto di scherno in mezzo mondo: gli ultimi a deriderle sono stati il re di Giordania e - indirettamente - il presidente egiziano. Persino in Arabia Saudita si sta correndo ai ripari, con la fretta di chi teme di aver a lungo contato su un amico infido, per non parlare del Marocco che ha stretto un patto con Gheddafi.

Gli Stati Uniti - si dice - non accettano il ruolo di guardiani del mondo occidentale. Ciononostante, giurano di essere pronti a battersi ora per questo paese ora per quello, di volta in volta considerato irrinunciabile. Ma quanti paesi «irrinunciabili» sono stati abbandonati alloro destino, dal Vietnam in poi?

La politica statunitense appare, a noi europei, come il risultato sempre più incerto di un match permanente tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Cia, Dipartimento della Difesa, Congresso.

Con ritardi catastrofici, gli echi di questi scontri arrivano sui campi di battaglia sicché, come ho visto in Libano, gli inviati speciali degli Usa si alternano senza posa portando direttive contrastanti alle quali di volta in volta si adeguano (o non si adeguano) i politici e i militari sul luogo.

Le crisi che coinvolgono i due blocchi scoppiano trovando sempre gli Stati Uniti impreparati: in assenza di una strategia globale, essi si affidano a una reazione il più delle volte improvvisata, all'insegna di appelli alla pace o di interventi militari rabberciati e privi di convinzione, mentre in patria si affrontano le due anime del paese, quella universalista e quella isolazionista. «Probabilmente, nessun altro paese, piccolo o grande, è stato così spesso sorpreso che Mao o Castro si siano rivelati comunisti, che De Gaulle abbia perduto o acquistato forza, che si sia opposto al Mec o sia uscito dalla Nato; che Kruscev abbia mandato i carri armati a Budapest o i missili a Cuba; che le tribù africane si comportino da tribù africane, i comunisti da comunisti, gli esseri umani da esseri umani». [1]

Nonostante la loro fama - creata dal cinematografo - i servizi d'informazione statunitense non riescono, da anni, ad azzeccarne una: dalla caduta dello scià ai rovesci nel Corno d'Africa, essi hanno brillato per cecità, quando non si sono prestati a manovre disinformative, com'è accaduto a proposito della Bulgarian Connection e dell'attentato al papa?
La decentralizzazione dei poteri, che caratterizza il sistema americano, se da un lato garantisce la democrazia, dall'altro la rende infinitamente debole e disarmata di fronte al potere centralizzato e alla conseguente rapidità di decisione del blocco dell'Est.

Di un eguale difetto soffre anche la diplomazia americana: spesso i neoambasciatori Usa, scelti per motivi elettorali dai nuovi presidenti tra i loro sostenitori, si devono misurare, nelle zone calde, con le vecchie volpi della diplomazia sovietica, che vivono da anni nello stesso paese, ne conoscono la lingua e gli usi, quando non ne hanno già preso in mano le sorti attraverso le spie e la corruzione. Alcuni di essi, come l'ambasciatore sovietico a Islamabad o quello a Beirut, sono diventati da tempo autentiche autorità nell'intero scacchiere e quando parlano lo fanno ex cathedra. Mentre ricordo con pena l'ambasciatore Usa a N'djàmena che, in piena guerra del Ciad, teneva rapporti informativi a ottanta giornalisti stranieri, leggendo un'agenzia di stampa americana, in presenza dell'autore.

La confusione politica genera l'incertezza della diplomazia, e quest'ultima prelude alle fughe dei boys in armi, ormai diventate tradizionali e tristemente spettacolari.

 

Note:

1 – James Burnham, Suicide of the West (Il suicidio dell’occidente)

 

Quale filosofia?

Figlia di Calvino e di Rousseau, l'America considera la politica come un'applicazione della morale; quest'ultima affonda le sue radici non tanto nella fede, quanto nella religione, intesa anche in senso sociale. È la religione del Bene e del Benessere. Il Benessere è in competizione con la religione; diceva Henry Adams, all'inizio dell'Ottocento: «Si gridi pure al paradosso, ma fu la ricerca del profitto e non le lezioni di religione che rese gli uomini più generosi, più tolleranti, più liberali con i loro simili». E poiché la società ricca diventa «tentatrice», ecco il perenne contrasto tra Benessere e peccato, risolto con l'idea del «male necessario» e della «riparazione catartica», già messe in luce da Tocqueville.

Conseguenza della morale del benessere è l'idea di popolo privilegiato ed eletto che gli americani hanno di se stessi, in contrasto con l'Europa che ha spesso considerato il nuovo continente come un patchwork ottenuto con gli avanzi del vecchio.

Quando Reagan identifica il Cremlino con il Male ed auspica che ogni cerimonia pubblica si trasformi in un atto di preghiera, agisce nella .linea e nella tradizione moralistica americana. [9]

Quando i politici Usa parlano dell'America. «e degli altri», rispettano categorie che vengono da lontano, dalle indicazioni di George Washington (1793): «Sono sicuro che la volontà degli Stati Uniti è di non avere nulla a che fare con gli intrighi e le contese politiche delle Nazioni Europee». L'idea dello Stato eletto si affaccia fin dall'inizio, precedendo la dottrina Monroe, [10] e permea tutta la storia statunitense.

Il generale Patton, sbarcato in Sicilia nel 1943, arringherà così i suoi soldati: «Quando sbarcheremo, troveremo davanti a noi soldati italiani e tedeschi che avremo l'onore e il privilegio di attaccare e distruggere. Molti fra di voi hanno nelle loro vene sangue italiano e tedesco. Ricordino che i loro antenati amarono tanto la libertà che abbandonarono il loro focolare e il loro paese per traversare l'Oceano, nella speranza di trovarla. Gli antenati di coloro che noi uccideremo non ebbero il coraggio di compiere un tale sacrificio, ed è per questo che continueranno a vivere come schiavi». Questo senso dell' elettività è alla base delle tentazioni costanti degli Stati Uniti: l'isolazionismo e l'internazionalismo, e del compromesso che ne risulta, per cui «gli americani si rivelano isolazionisti in politica e interventisti in morale». [11]

La realpolitik sovietica cozza come un iceberg contro una politica estera statunitense che ha sempre un piede nella morale, nello spirito di crociata e, al tempo stesso, nella volontà di pace.

«La società americana è profondamente pacifica. La competizione si svolge, prima di tutto, come concorrenza economica e lotta per il successo». [12] Di qui la difficoltà americana per qualsiasi impegno bellico per il quale non si trovino che motivazioni politiche: senza una causa morale i marines diventano inutilizzabili.

C'è un aspetto essenzialmente nobile nel moralismo e nel pacifismo americano. Il richiamo agli ideali è in se stesso una forza notevole, è il motore della libertà. Ma essa viene messa in pericolo, e spesso si sfalda completamente davanti a due realtà: le leggi del potere economico e il realismo sovietico. Detenendo la tecnologia e il denaro, gli Usa condizionano senza possibilità di scelta le economie di quei paesi amici nei quali hanno trapiantato il loro spirito; ne modellano lo sviluppo fino a permearne la cultura. Quanto all’Urss, essa appare di volta in volta agli americani o come il regno del Male o come l'unica, impenetrabile controparte con la quale spartire il mondo. In entrambi i casi, la certezza della fede impedisce quasi sempre agli americani di comprendere l'essenza del comunismo, cioè dell'altra fede.

Anzi, l'asimmetria morale prodotta dal complesso per il benessere genera nella classe intellettuale americana un involontario allineamento al comunismo, un daltonismo politico che le consente di non vedere la realtà. Dai tempi di John Reed e di Dos Passos, che sono poi gli stessi di Gide e di Shaw, non è cessato il pellegrinaggio - fisico o spirituale - degli americani daltonici che di volta in volta si sono recati a Mosca, in Cina, in Vietnam, in Cambogia, tornandone edificati. «Ho visto il futuro e funziona!», esclamava Lincoln Steffens, nel 1920, di ritorno dall'Urss. E l'abbaglio continua.

Come ha detto il filosofo Eric Hoffer, «uno dei sorprendenti privilegi degli intellettuali è che essi sono liberi di essere scandalosamente stupidi senza danneggiare la loro reputazione. Gli intellettuali che idolatravano Stalin, mentre epurava milioni di persone e soffocava ogni libertà, non sono stati screditati. Essi dissertano ancora in pubblico». [13]

E Jane Fonda, giullare del filovietnamismo, può restare sotto i riflettori politici senza che nessuno le offra il ruolo di protagonista in un film sui boatpeople.

Il complesso di amore-odio per l'altra religione sociale, il comunismo, ha generato quello che Solzenicyn condanna come l'errore egoistico e fatale dell’Occidente, che «voleva una sola cosa, con passione, con frenesia: non doversi opporre al comunismo. Non si accorgeva né degli stermini perpetrati dai comunisti, né delle loro oppressioni, dovunque e comunque avessero luogo. Fece presto a perdonare Berlino Est, Budapest, Praga; si affrettò a credere alle intenzioni pacifiche dei governanti nord coreani, alla nobiltà d'animo dei nord vietnamiti; si è lasciato e si lascia ingannare vergognosamente dagli accordi di Helsinki, riconoscendo in cambio, e per sempre, le occupazioni dei territori da parte dell'Urss nell'Europa dell'Est; si aggrappò al mito di una Cuba progressista (l'Angola, l'Etiopia e lo Yemen del Sud non sono bastati a dissuadere il senatore Mc Govern) e alle virtù dell'eurocomunismo; partecipò fino all’instupidimento alla beffa delle trattative di Vienna sul disarmo europeo e per due anni, dall'aprile del 1978, si sforzò di non vedere l'occupazione dell'Afghanistan. Gli storici e i posteri resteranno esterrefatti e non riusciranno a trovare una spiegazione a tanta cecità». [14]

 

Note:

9 – Ancora nel 1966 il senatore Wayne Morse dichiarava: «Il popolo americano è in tempo per ricordare al suo governo che i nostri princìpi religiosi debbono allo stesso modo venire applicati nel campo della politica estera»

10 – James Monroe (1758-1831): «Non si tratta più, ormai, di considerare il continente americano come suscettibile di venir colonizzato dalle potenze europee, quali che siano. Noi consideriamo per il futuro ogni tentativo di espansione di uno Stato europeo nel nostro emisfero come una minaccia per il nostro Paese».

11 – In Il male americano di Locchi-De Benoist (ed. Lede)

12 – Francesco Alberoni in «La Repubblica», 26-4-1984

13 – Eric Hoffer, Before the Sabbath, Harper&Row, New York

14 – Aleksandr Solzenicyn, L’errore dell’Occidente, La Casa di Matriona

 

 

Dai confini dell'impero. Lettera agli americani, di Lucio Lami
125 pag., 10.000 lire (ottobre 1984)
SugarCo Edizioni, 1984
ISBN: -

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