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Quando l'Italia andava a cavallo
(Di seguito si propone la prefazione di Giovanni
Arpino)
Bisognerebbe
poter dire: in principio fu il Cavallo, poi venne l'uomo, una creatura
inferiore che sa amare fino alla distruzione non solo di sé
ma del Cavallo.
La storia di questo animale superbo è più
forte delle più forti leggende. Non per nulla non esiste
leggenda che non abbia tra le sue pagine un cavallo. Ed è
una storia che degrada fino all' offesa più volgare: come
definire altrimenti il termine di "cavallo-vapore"? Roba
da scalciare per sempre, da disarcionare l'universo e la stessa
dea Minerva.
Desidero ringraziare le pagine di Lucio Lami che
seguono questa mia nota: sono pulite e documentate e fitte e oneste
e rimarchevoli, restituiscono grazia ad un momento storico, il nostro,
che non merita nulla ma che ha ancora tempo per pentirsi. Come i
cavalli, non amo le corse all'indietro, sono innaturali, ma questa
"vacanza storica", questa "galoppata tra le storie
cavalline" hanno una loro precisa ragione.
Nel mondo in cui viviamo, un bambino conosce la tigre
perché l'ha vista o allo zoo o al circo equestre o in un
telefilm, ma ignora la gallina, si spaventa orrendamente (ho potuto
constatarlo di persona e fu un triste momento) se si imbatte in
un tacchino. E in questo mondo il Cavallo (ogni tanto debbo pur
nominarlo in maiuscolo) rischia di diventare un essere preistorico,
un "oggetto", ammirevole, e da conservare sì, ma
non più un "soggetto" dotato di vita propria. Chi
ha amato il film western sa di averlo amato per i cavalli e per
la polvere di John Ford. Furono i cavalli a vincere gli imperi aztechi.
Nessuna mitologia è accettabile se non porta dentro di sé
l'impronta di un cavallo. Parigi vale una messa ma un cavallo vale
un regno: dalla mitologia si passa dunque alla storia, che non è
maestra di vita solo perché gli uomini sono diventati pedestri
anziché restare cavalieri.
Le pagine di Lami alternano il passo, il trotto,
il galoppo, le date e i nomi e le preziosità e gli aneddoti
con molto garbo. Non infieriscono, ed è un peccato. Si limitano
elegantemente ad offrire il mondo di una certa cavalleria come uno
specchio in cui mirarsi. Ma abbiamo ancora gli occhi adatti a guardarci
in questi cristalli? Forse riusciremo a cogliere alcuni particolari
solo perché sopraffatti da una violenta gelosia retrospettiva.
No, non si tratta di volgarissima nostalgia, ma proprio di autentica
gelosia, come sempre accade quando il soggetto-oggetto del desiderio
è irraggiungibile e la sua irraggiungibilità sottolinea
la nostra impotenza, il nostro scadimento.
Bisognerebbe poter dedicare al Cavallo la scarsa,
mirabile paginetta che Alain dedicò, nei suoi "Propos",
all'usignolo, questa “forma guardinga e separata”, questa
creatura che "colpisce il silenzio". Il Cavallo scolpisce
l'aria e dà una ragione a tutte le leggiadre vanità
umane, femminili e maschili, duellanti e guerresche e recitanti.
Questo l'odore che si respira dalle pagine di Lucio Lami; e vi par
poco?
L'uomo che non riflette sugli animali che abitano
il suo mondo è un analfabeta della Natura e perderà
la Natura. L'uomo che si avvicinò al Cavallo primigenio e
lo elesse a strumento, però regale, fu per questo solo motivo
un "cavaliere": dall’animalità ricavava una
nobiltà altrimenti introvabile. E così, in quanto
uomo, poteva dirsi “senza macchia e senza paura”.
Poi è sceso di sella. Ritrovandosi subito
con molte macchie e molte paure. Le nostre.
Giovanni Arpino
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l'Italia andava a cavallo, di Lucio Lami