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Isbuscenskij, l'ultima carica

(Di seguito si propongono la prefazione dell'autore e il capitolo dodicesimo)

Copertina libro 'Isbuscenskij, l'ultima carica', di Lucio LamiNell'autunno del 1960 stavo terminando il mio regolare servizio militare, in «Savoia Cavalleria», a Merano, come sottotenente di complemento, quando accadde un fatto che mise in subbuglio tutto il Reggimento: Albino si ammalò. Albino era l'ultimo cavallo superstite della carica di Isbuscenskij, una specie di istituzione. Viveva in un box tutto suo, all'ombra dei carri armati, e gli teneva compagnia Mariolino, un asinello allegro e lavativo che dava segni di insofferenza solo quando il maresciallo di scuderia lo costringeva a spianare la sabbia del galoppatoio.

Ricordo che mi informavo di Albino quasi ogni mattina, quando uscivo con Omar per la passeggiata sotto i meli di Maia Bassa. Avevo dovuto ricorrere a mille astuzie per poter montare uno dei pochissimi cavalli rimasti alla scuderia ufficiali. Era infatti quello il tempo in cui, a colpi di circolare, il ministero stava freneticamente sloggiando dalle caserme di cavalleria gli ultimi quadrupedi sopravvissuti all'arrivo dei carri, con una serie di provvedimenti che contribuirono a far tramontare definitivamente la grande tradizione di Pinerolo, prima che potesse essere trapiantata nelle scuole non militari. [1]

Lo scalpitare di un cavallo destava ormai curiosità anche nei «cavalieri», per i quali era quasi un avvenimento vedere il vicecomandante uscire in passeggiata sul suo grigio, o qualche subalterno lavorare in maneggio ad ore impossibili, o il capitano Grignolo, olimpionico di complemento, di passaggio dopo qualche gara, fare una ripresina dimostrativa, prima di riprendere la via di Passo Corese.

La malattia di Albino, quindi, rappresentava per tutti una pena nella pena, quasi un accanimento della sorte. La povera bestia non dava segno di soffrire; anzi, come si conveniva a un cavallo da guerra, teneva un atteggiamento dignitoso e, con l'unico occhio sano, guardava pacatamente il veterinario che la curava: un veterinario che, per colmo di ironia, apparteneva al vicino reggimento di artiglieria da montagna, era avvezzo a trattar con i muli, e gli ronzava attorno sventolandogli sotto il naso la penna del cappello alpino. A detta del veterinario la diagnosi era chiara: vecchiaia. Albino, più che soffrire di un malanno preciso, era soggetto ai mille acciacchi, propri di quei vecchi che in gioventù non si sono risparmiati. E lui, il reduce di Isbuscenskij, aveva fatto il galletto fino all'ultimo. Ricordo che, solo un paio di mesi prima, durante le prove per la festa del Reggimento, si era esibito in una delle sue imprese: quando il trombettiere, al momento della commemorazione dei caduti, aveva suonato la carica, Albino era stato improvvisamente colto da un fremito e, piantato in asso l'inesperto palafreniere, era partito al galoppo traversando tutta la piazza d'armi e andandosi a infilare sotto gli enormi capannoni dove erano custoditi i nuovi Patton. Fu, quella, la sua ultima sgroppata: il 21 ottobre, in barba alle punture del veterinario-artigliere, Albino morì e fu subito portato via per essere imbalsamato. Il suo box rimase vuoto, intatto, con le pareti coperte delle foto del sergente maggiore Fantini (morto nella carica, in sella ad Albino) e delle letterine che gli scolari milanesi avevano scritto al celebre cavallo, nel primo dopoguerra, quando il Reggimento, sospettato d'eresia e privato del suo nome, era stato spedito in Alto Adige. [2]

Mariolino fu preso da una tremenda crisi depressiva e fu trasferito nella scuderia degli altri cavalli. Il colonnello Luigi Mirelli di Teora, 62° comandante del Reggimento, fece stampare una partecipazione di lutto e la spedi agli amici. I giornalisti arrivarono a frotte e ad essi qualche anziano ufficiale raccontò la storia di Albino, con tutte le inesattezze ormai entrate nella leggenda (compresa quella secondo la quale il cavallo era stato ferito in guerra oltre che a una gamba, a un occhio, mentre quel’occhio era stato sempre malato), epurandola tuttavia di alcuni particolari, come quello riguardante il servizio prestato da Albino, «sequestrato», nella Repubblica di Salò; particolare che avrebbe permesso a qualche rappresentante della stampa di attribuire alla povera bestia un passato fascista del quale in realtà non era responsabile.

Fu proprio per cercare del materiale da fornire a un giornalista (oggi caro amico e collega), che cominciai a rovistare tra le vecchie carte conservate nella sala ricordi del Circolo Ufficiali. Così, scartabellando con pazienza, mi resi conto di tre fatti che ignoravo:
1°) nessuno aveva mai scritto una cronaca precisa dell’ultima carica, neppure coloro che avevano redatto le relazioni ufficiali [3] per l'ufficio storico;
2°) al di là del!' episodio eroico della carica, c'era tutta un'odissea da riscoprire: la lunga marcia del Reggimento dalla Jugoslavia al Don e la sua presenza nello sfortunato Corpo di Spedizione, buttato allo sbaraglio nelle steppe russe;
3°) con la carica di Isbuscenskij si concludeva, dopo cinquemila anni, la storia del combattimento a cavallo e soprattutto, per l'Italia, finiva il periodo dei combattimenti ottocenteschi, romantici e savoiardi innestati sulla tradizione delle guerre d'Indipendenza.

1. - I documenti sulla carica erano pochi e scarsamente attendibili. Le relazioni ufficiali, ad esempio, ostinandosi a sostenere che la divisione «Sforzesca» non cedette, ma «si ritirò ordinatamente», falsano ancor oggi la realtà dei fatti e sminuiscono involontariamente anche il valore della carica che, invece, servi proprio ad alleggerire la pressione nella zona in cui i russi stavano dilagando e, bloccando un'ala dello schieramento avversario, salvò probabilmente la vita a migliaia di sbandati.

I resoconti della stampa dell'epoca erano, invece, ampollosi e spesso imprecisi, tanto che i reduci non perdonarono mai ai giornalisti le corrispondenze di quel tempo. [4] A loro volta, i superstiti, rientrati in Italia nel momento dei grandi sconvolgimenti politici, si chiusero in un pudico riserbo che è ancor oggi difficile violare. Solo qualcuno pubblicò brevi scritti, sulla traccia dei ricordi personali; [5] qualche altro, consultato come esperto, ma non essendo stato protagonista dell'avvenimento (pur essendo col Reggimento, in Russia) fini col riportare notizie orecchiate, che spesso si sono dimostrate inesatte. Infine, un lungo racconto romanzato intitolato La carica senza ritorno fu scritto, con il beneplacito di Bettoni, nel 1943 (da un autore del quale non mi è stato possibile scoprire l'identità) e fu stampato, nel mese di luglio dello stesso anno, nella collana «Eroi e avventure della nostra guerra», diretta da Leo Longanesi ed edita da Rizzoli. La tiratura completa dell'opera stava per lasciare lo stabilimento tipografico «Novissima» di Roma quando, la mattina del 19 luglio 1943, avvenne il primo bombardamento aereo americano sulla capitale che distrusse tra l'altro la tipografia e con essa l'intera tiratura fresca di stampa. Una copia del manoscritto (che, essendo romanzato, ha ormai solo il valore di un cimelio) è conservata presso il Reggimento.

Un discorso a parte va fatto per il materiale fotografico. L'Istituto «Luce», nel settembre del 1942, spedì una troupe nella zona dove si trovava il «Savoia» e il Reggimento dovette organizzare, sotto gli occhi del comandante di divisione, una carica fasulla ad uso dei cineasti. Quelle immagini, riprese dalle angolazioni più suggestive, a volte perfino frontalmente, sono apparse ormai su riviste, libri ed enciclopedie e sono state contrabbandate, spesso in buona fede, come autentiche. In realtà non esistono altre foto della carica se non quelle scattate, molto da lontano, da Abba. Abba morì combattendo, con la macchina fotografica a tracolla. Il sottotenente Compagnoni conservò l'apparecchio e lo riconsegnò alla madre del caduto che però gliene fece dono. I rullini, sviluppati dopo qualche tempo, sono stati tenuti nascosti fino ad ora nel timore che si riaccendesse attorno al nome di Abba una polemica inutile della quale parlo al capitolo dodicesimo.

Tutti questi particolari spiegano perché io abbia sentito il bisogno di rintracciare i reduci della carica e di ottenere da costoro i diari manoscritti, che molti avevano conservato, il materiale fotografico inedito e preziosissimo che era loro rimasto e una serie di interviste che ho registrato su nastro e che spesso, nel libro, cito fedelmente.

2. - Tutto ciò che avvenne prima della carica ha, storicamente, un valore eguale e forse superiore a quello dello stesso episodio di Isbuscenskij. Gli studi del dopoguerra (anche quelli stranieri, meno faziosi dei nostri) hanno dimostrato abbondantemente come l'invio del CSIR fu una follia sia dal punto di vista militare che da quello politico-economico. L'immissione di due reggimenti di cavalleria nel CSIR non mutò di molto la situazione. La cavalleria italiana, per alcuni aspetti, si era dimostrata anacronistica già al tempo della Prima guerra mondiale (nonostante il suo largo impiego e il contributo da essa pagato) e tuttavia continuò a prepararsi, fino al 1940, in base a criteri spesso arretrati che prevedevano, tra l'altro, un impiego d'urto come dimostra la massima del maresciallo di Sassonia, citata nei libri di testo dell'Accademia di Modena: «Un reggimento di cavalleria è buono quando sa caricare di carriera mille metri senza perdere l'allineamento». [6]

Questi anacronismi, va detto per amore di verità, non erano solo nostri. Scrive il generale russo Aleksandr Vasil'jevic Gorbatov: «Il 22 giugno (1942) fui nominato ispettore della cavalleria presso il quartier generale delle linee sud-occidentali. Non posso dire che quella nomina mi facesse piacere. Avevo prestato servizio per ventotto anni in cavalleria, amavo quell’arma più di qualsiasi arma, ma con la comparsa dell'aviazione e dei carri armati, fin dal 1935 avevo cominciato a dubitare della funzione che la cavalleria avrebbe avuto nella guerra futura, specialmente sul teatro d'operazione occidentale». [7]

Anche da noi qualcuno aveva dubitato, ma le polemiche subito accese si erano risolte a favore di chi non amava i cambiamenti. I difensori non potevano concepire la trasformazione di un'arma cosi gloriosa, tanto è vero che continuarono a battersi anche dopo la campagna di Russia: «Alla luce della recente esperienza» leggo infatti su una rivista militare del 1943 «si auspica che in futuro la cavalleria venga dotata di una sciabola più pesante, con il centro di gravità spostato in avanti». [8]
Nonostante tutte queste tare, la cavalleria italiana poté assumere, in Russia, un ruolo di primo piano, nell'ambito del nostro Corpo di Spedizione, quando si verificarono due situazioni impreviste: il fallimento del piano tedesco mirante a stroncare la Russia prima dell'inverno del 1941 (e il conseguente impantanamento delle armate corazzate nel fango della steppa) e la crisi improvvisa della produzione bellica sovietica. Quando le Panzerdivisionen furono bloccate dal maltempo, e con esse le fanterie, si scopri improvvisamente che i metodi di guerra facevano un balzo indietro di almeno cento anni e che solo la cavalleria poteva proseguire la marcia incurante del fango. E quando i russi contrattaccarono sul Don e furono costretti a farlo senza l'appoggio di quei carri armati di cui tanto scarseggiavano, allora la nostra cavalleria, posta di fronte alle fanterie nemiche, poté caricare, sciabola alla mano, come ai tempi di Balaklava.

3. - La carica di Isbuscenskij, come gran parte delle azioni che la precedettero, fu senza dubbio un capitolo di guerra di sapore ottocentesco ed è alla luce di questa considerazione, credo, che Messe la definì «un episodio di epica bellezza» [9], così come un ufficiale dello Stato Maggiore francese aveva definito «spettacolo sublime» la carica di Balaklava. Rispondeva ad esigenze «ottocentesche» già il primo provvedimento preso dal generale Barbò quando riunì i reggimenti a cavallo in un unico raggruppamento, svincolato dalla fanteria e dai reparti corazzati; già Napoleone aveva scritto: «Il metodo di mescolare reparti di fanteria e di cavalleria è sbagliato e non se ne ricavano che inconvenienti: la cavalleria cessa di essere mobile, è impacciata nei suoi movimenti, perde l'impulso, mentre la fanteria è compromessa e al primo movimento della cavalleria si trova allo scoperto». [10] Ottocentesca fu pure tutta la carica nella sua incredibile spettacolarità: quando ebbe inizio, essa fu condotta dal solo secondo squadrone e il Reggimento rispettò cosi la vecchia regola di uno dei più grandi teorici della cavalleria (Nolau): «Non fate mai caricare tutto il Reggimento: una buona riserva può risolvere l'esito al momento della mischia». Regola antica, già adottata da Annibale a Canne; da Cromwell a Marston Moor (1644) e a Naseby (1645); da Seydlitz, braccio destro di Federico II di Prussia, a Zorndorf (1758).

Il fatto che la carica di Isbuscenskij sia nata da un gesto di corale spontaneità e che sia stata condotta, spesso, all'insegna dell'iniziativa personale, non toglie nulla al suo carattere di episodio leggendario. Ugualmente, nulla cambia nell'epica del quadro, se anche vi si inserisce l'apparizione delle tecniche più nuove (come il lancio di bombe a mano da cavallo) adottate durante il combattimento.

In sostanza, la carica di Isbuscenskij, ultima tradizionalmente della cavalleria montata, [11] chiuse (sia pure con qualche decennio di imprevedibile ritardo) un capitolo di storia che era cominciato tremila anni prima di Cristo, con i primi scontri a cavallo fra le tribù dell' Asia centrale. L'episodio acquista un sapore leggendario, incredibile, quasi paradossale, specialmente se si tiene conto che avvenne a una trentina di mesi dallo sganciamento della prima bomba atomica.

L. L.

 

Note

1 - Le conseguenze di quei provvedimenti sono constatabili oggi: i D'Inzeo hanno pochissimi eredi e l'Italia, che ha esportato in tutto il mondo il «metodo Caprilli», sembra destinata, nel campo equestre, a una faticosa rimonta. La scomparsa degli allevamenti (come quello di Persano ad esempio) ci costringe ad acquistare, a peso d'oro, cavalli all'estero. Dalle scuole private esce ben poco: mancano istruttori qualificati e lo sport attivo è praticato solo da chi può permettersi di acquistare cavalli eccezionali, spesso destinati a sopportare monte modeste. Di Pinerolo, università del cavallo, non resta che un fumoso ricordo.

2 - Al Reggimento, ricostituito nel dopoguerra, venne dato temporaneamente (nel 1950) il nome di «Gorizia Cavalleria», con un provvedimento tragicomico e antistorico. Il reparto fu poi trasferito (1957), dopo 46 anni di vita milanese, a Merano, non tanto per motivi logistici quanto per evitare - si disse allora da più parti - che al Circolo Ufficiali potessero ancora radunarsi, come accadeva nell'anteguerra, i più accesi monarchici di Milano.

3 – È sintomatico, a tal proposito, il fatto che lo stesso generale Messe, per scrivere alcuni articoli sulla carica, abbia attinto quasi esclusivamente da un articolo del corrispondente di guerra tedesco Ernest Weist. D'altra parte, fu proprio Messe a sostenere, forse per carità di patria, che la «Sforzesca» si era «ritirata in buon ordine», depauperando così la carica del suo vero merito: quello di aver ritardato di 24 ore l'attacco in forze di Tschebotarewskij e quindi la caccia agli sbandati.

4 - Il giornalista e scrittore Max David, nel suo libro Gli italiani a cavallo, scrive: « ... proprio a me Bettoni non cessava mai di rimproverare la cronaca di Isbuscenskij che avevo inviata al mio giornale trovandomi in Russia quale corrispondente di guerra. Bettoni diceva che, a parte le inesattezze, la mia cronaca era stata ampollosa, gonfia, barocca, oleografica. Me ne diceva di tutti i colori e se ne ricordava sempre. Una volta che Bettoni montava Litargirio e lavoravamo insieme a cavallo, nel campo di Villa Borghese, eravamo tornati per caso sul discorso di Isbuscenskij, e Bettoni aveva fatto: “Ah, quella tua cronaca dalla Russia, basta, basta, meglio non parlarne". Invece me ne avrebbe riparlato non so mai quante volte in quell'anno, che fu l'ultimo della sua vita».

5 - Tra questi va segnalato il giornalista Luigi Gianoli, sottotenente in «Savoia» durante la campagna di Russia. Gianoli ha scritto un racconto (v. bibliografia), da me più volte citato, nel quale commenta alcune pagine di un lungo diario di guerra. La narrazione, scritta in forma impeccabile, alterna brani tratti dal diario a lunghi periodi di commento, scritti in epoca successiva, nei quali spiccano, oltre ad acute osservazioni di carattere generale, giudizi pungenti, su uomini e fatti, che sono stati causa di malcelate reazioni da parte degli altri reduci. A Gianoli va tuttavia riconosciuto, tra gli altri, il merito di aver ricostruito alla perfezione un certo clima decadente, tipico dell'arma «nobile», che riaffiora spesso tra le righe. Ecco un esempio: «Per molti di noi la dichiarazione di guerra giunse addirittura come una pugnalata alla dolce e accarezzata anglofilia. Perché agli inglesi, se non altro per affinità di sentimenti ippici, ci sentivamo tutti legati. E come potevamo protestare? Fumando la pipa, acquistando e usando certi frustini che Pariani diceva di trafugare ancora da Londra, bevendo whisky, continuando ad agire come gente destinata a magnifiche parti in elevate tragedie, convinti che i nostri gesti, le nostre battute esigessero attenzione, rispetto, ammirazione».

6 - Cfr. Carlo Decristoforis, Che cosa sia la guerra, E. Sarasino, 1894, p.146.

7 - Cfr. Gorbatov, Anni e guerre, Bietti, 1965, p. 327.

8 - Cfr. «Rivista di Cavalleria», 1943, n. 1.

9 - I giudizi dei militari nascono quasi sempre da considerazioni tecniche. II politico e lo storico giudicano ovviamente da un altro punto di vista. Così ha fatto recentemente Giorgio Bocca (v. bibliografia), che ha impugnato la definizione di Messe sostituendola con quella di «inutile carneficina». In realtà, la carica fu inutile solo se considerata nell'ambito di una guerra inutile. In questo senso, anzi, fu drammatica. Di per se stessa, però, servi a salvare un buon numero di sbandati della «Sforzesca» e degli uomini in armi presso Tschebotarewskij. Inoltre, considerando la proporzione delle forze, non fu neppure una carneficina: 39 morti in uno scontro tra seicento uomini contro duemila avversari. Il basso numero delle perdite è sempre stato un dato caratteristico delle cariche ben eseguite.

10 – Napoleone, Campagne de Turenne (citata da Decristoforis). Le intenzioni di Barbò, in realtà, non erano solo strategiche, come si vedrà più avanti.

11 - Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, quella di Isbuscenskij fu considerata l'ultima carica di cavalleria della storia. Essa in effetti fu l'ultima azione risolutrice condotta, a cavallo, e con grande successo contro truppe regolari. Per rispetto alla cronologia va tuttavia ricordato il combattimento di Poloj (Croazia) avvenuto il 17 ottobre 1942. In quell'occasione, il reggimento «Cavalleggeri di Alessandria», che stava rientrando con una sezione del 1/23° reggimento artiglieria dai mulini di D. Karasi (sul fiume Korana), fu attaccato da formazioni partigiane ed accerchiato. Per aprirsi un varco, il reggimento caricò ripetutamente, a interi reparti. In una di queste cariche, effettuata dallo squadrone, dallo squadrone mitraglieri e dallo squadrone comando fu in testa lo stesso comandante, colonnello Aimone Cat, con al fianco l'alfiere e lo stendardo. Le perdite furono gravissime. Tra i decorati va ricordato il capitano Antonio Vinaccia M.O.V.M. (Cfr. Relazione ufficiale inviata al comando della divisione Celere «Eugenio di Savoia»).

 

Capitolo dodicesimo

Caricat, Savoia!

La mattina del 24 agosto la pattuglia del sergente Comolli uscì, com'era stato stabilito, alle 3 e 30 dopo aver dato ai cavalli un po' di biada ed aver cercato invano dell'acqua con cui abbeverarli. L'aria era ancora fredda e gli uomini del Reggimento dormivano avvolti nei pastrani, il capo protetto dal passamontagna. Nel crepuscolo mattutino si intravedeva a malapena la sagoma morbida di quota 213,5 ed il suo dolce declinare verso il Don. Accompagnata da un leggero tintinnare di ferri, la pattuglia superò la linea dei mitraglieri e infine quella delle sentinelle alle quali il caporal maggiore Bottini raccomandò: «Non sparateci addosso, quando torniamo: rientreremo di qui ».

I cavalli presero a trottare leggeri tra i campi di girasoli e i morbidi tappeti sui quali il grano era stato mietuto da poco: c'era una nebbiolina lattiginosa che rendeva il paesaggio quasi irreale. In testa alla pattuglia marciava Bottini, guastatore, seguito dal caporale Legnani e dall'appuntato Petroso; gli altri tre uomini, guidati da Comolli, procedevano a un centinaio di metri, armi alla mano.

«Dopo un paio di chilometri, vedemmo, dall'alto di una balka, quel carro agricolo di cui si era tanto parlato la sera precedente: Legnani parti allora al galoppo e, dopo aver fatto un ampio giro, sbucò all'improvviso alle spalle del carro da dove ci fece segno, agitando un braccio, che non c'era nulla di cui preoccuparsi. Noi gli segnalammo di rientrare.

«Era appena tornato da noi quando, a una cinquantina di metri, vidi qualche cosa che si muoveva e luccicava in mezzo a un campo di girasoli: sembrava un elmetto. "Forse è la pattuglia tedesca che ci viene incontro», dissi, e sollevatomi in piedi sulle staffe gridai: "Ehi, camarade!". Ma non udimmo risposta. Allora accesi una sigaretta e mi avviai tra i girasoli, verso il centro del campo. Ero a una ventina di metri quando l'elmetto riaffiorò, e, questa volta, lo vidi bene: era color oliva con al centro una stella rossa.

«Ricordo che in quel momento, forse a causa della paura, riuscii a fare, in una frazione di secondo, una intera serie di considerazioni: montavo una cavalla ombrosa ed ero armato con un parabellum russo: se avessi sparato a raffica la cavalla mi avrebbe quasi sicuramente disarcionato; accanto a me, invece, c'era Petroso che montava Olwo, il cavallo più tranquillo del Reggimento...

«Quasi istintivamente gridai: "Spara tu, Petroso, spara!".
Petroso, da buon siciliano, non si scompose: teneva il moschetto sotto il braccio e lasciò partire un colpo che colpi il russo proprio al centro della fronte, un dito sotto il filo dell'elmetto.

«Fu come un segnale: si scatenò l'inferno. Mai visto un dietrofront rapido come il nostro né cavalli cosi veloci. Galoppammo alla disperata per alcuni minuti mentre le mitragliatrici sparavano tanto che vedevo la terra ribollire per i colpi, tra le gambe dei cavalli. Uno di questi, Trabocco, venne colpito mortalmente e Galbusera, che lo montava, invece di cadere con lui, si esibì in una specie di salto mortale e continuò la fuga a piedi, senza perdere un istante, mentre i russi cominciavano a tirarci addosso anche con i mortai. Fu a quel punto che dal Reggimento, nonostante le nostre raccomandazioni, partirono alcune raffiche di mitragliatrice, fortunatamente alte, sparate da qualcuno che ci aveva preso per cosacchi». [1]

Al Reggimento dormivano quasi tutti: solo qualche gruppetto di soldati stava rigovernando i cavalli o sorbendo il caffè; la sveglia venne data dalle prime raffiche e soprattutto dalle esplosioni dei colpi di mortaio che fortunatamente cadevano lontano dal quadrato. Gli ufficiali saltarono giù dalle loro brandine o dai camion sui quali dormivano, i soldati si alzarono rapidamente da terra e, raccolte le loro cose, corsero a recuperare i cavalli, Bettoni raggiunse la radio e diede a Ferruccio Marino un messaggio per la brigata. Banfi, seconda cuffia, si affrettò a portare un elmetto al collega ed a cacciarglielo in testa, ma in quel preciso momento una raffica arrivò sibilando ed una pallottola lo colse al ventre. Marino, mentre trasmetteva, guardò impotente il suo amico accartocciarsi al suolo, invocando la mamma. [2]

I mitraglieri, intanto, avevano cominciato a rispondere al fuoco e sgranavano caricatori mentre il maggiore Albini e il capitano Solaroli di Briona, delle batterie a cavallo, avevano messo in azione i loro soldati. La fronte del nemico veniva rivelata, alla tenue luce dell'alba, dalle fiammelle azzurrognole delle armi automatiche: era ampia circa un chilometro e non distava, ormai, più di ottocento metri. I russi erano arrivati durante la notte, forse avevano sentito i rumori e le voci provenienti dalla zona dove sostava il «Savoia» e si erano preparati, scavando buche e schierandosi a semicerchio, a sferrare l'attacco al mattino. Era stato probabilmente per non rinunciare alla sorpresa che non avevano aperto il fuoco, per primi, sulla pattuglia esplorante. Ora però le loro intenzioni erano chiare. Il nemico, infatti, forte di duemila uomini (due battaglioni di siberiani) [3] contro settecento e in vantaggio per la posizione favorevole che occupava, poteva essere sicuro del successo.

Bettoni non ebbe dubbi, pensò di attaccare e comunicò la sua decisione a Conforti. [4] Questi si rivolse a De Leone: «Attaccare con decisione il fianco sinistro della linea nemica». De Leone era pallido d'orgasmo: saltò a cavallo e raggiunse i suoi; chiamò Donadelli, Gotta, Bonavera e il giovane Bruni, che comandava il plotone mitraglieri aggregato allo squadrone, e diede loro poche disposizioni. Nell'aria schioccò un ordine: «Secondo squadrone a cavallo!». E ancora: «A frotte, avanti: Trottooo!». Lo squadrone usci rombando dal quadrato, descrisse un ampio semicerchio sulla destra e si infilò in un canalone naturale che lo defilava al tiro nemico. «Quando udimmo gridare "Sciabl-man!" fu chiaro per tutti che cosa ci attendeva». [5] Dal comando di Reggimento videro allontanarsi ondeggiando quella lunga scia: gli elmetti luccicanti, le groppe tonde dei cavalli, le trombe d'ottone e le bandoliere ballonzolanti sulle schiene ricurve.

Il neo-promosso maggiore Manusardi guardò quella scena quasi con rabbia: lo squadrone, che fino a pochi giorni prima era stato suo, andava a caricare. A lui, invece, toccava di stare lì, «addetto al comando» e appiedato, visto che l'ultimo cavallo gliel'avevano ucciso due giorni prima. Ad un tratto sentì di non poter resistere: «Datemi un cavallo!» gridò. Gli corse incontro Casanova reggendo per le briglie il magnifico Bergolo: «Ci sarebbe questo» disse il maresciallo «ma è del generale Barbò...». Manusardi non gli diede neppure retta: saltò in volteggio, con l'agilità di un ragazzo, e diede di sprone. Raggiunse lo squadrone nell'avvallamento e affiancatosi a De Leone gli disse: «Vengo con te, come tuo gregario».
«Il nostro vecchio capitano è con noi!» gridò allora De Leone e nei suoi soldati crebbe l'eccitazione. [6]

Lo squadrone riaffiorò all'improvviso dal leggero avvallamento vicinissimo al fianco sinistro del nemico: un attimo d'attesa, poi: «Galoppooo!». E subito dopo: «Caricaaat!», un grido al quale rispose un coro fragoroso: «Savoia!»; il boato coprì il frastuono della carica e giunse nitido fino al Reggimento. Il galoppo divenne allora carriera sfrenata e i plotoni irruppero come un fiume straripante sulle linee nemiche gridando, sciabolando, sparando, lanciando bombe a mano. I cavalli sembravano guariti dalla fatica e rampavano schiumanti, saltando trincee e nidi di mitragliatrici, cacciandosi a frotte verso l'obiettivo indicato dallo sprone e scomparendo entro enormi nubi di polvere, seguiti dal tuono del loro zoccolio e dal crepitare furioso delle armi.

Molti venivano colpiti e dalle loro ferite, per centinaia di metri, zampillava il sangue vermiglio ad ogni tempo di galoppo. «Sembrava incredibile, ma c'erano cavalli già morti che continuavano a galoppare come fantasmi schiantandosi poi al suolo, di colpo, come querce colpite dalla folgore». [7]

Sulla fronte, intanto, arrivava ancora qualche colpo dalle batterie italiane che avevano voluto tenere il nemico sotto il fuoco fino agli ultimi istanti: un'esplosione avvenne nel bel mezzo di un plotone e molti cavalli saltarono in aria. «Il trombettiere Carenzi nell'armeggiare con la tromba e la pistola si lasciò sfuggire. un colpo che centrò la testa del cavallo facendolo stramazzare al suolo». [8]

Una raffica feri subito anche Ziguni, e il capitano De Leone, che lo montava, rovinò a terra gridando: «Datemi un altro cavallo!». L'attendente accorse per cedergli Zolbata, ma la bestia, l'occhio infuocato e le froge dilatate, cominciò a rampare e, liberatasi, riprese la sua corsa pazza, facendo sobbalzare le staffe vuote sui fianchi martoriati. Allora De Leone raccolse un'arma e disse all'attendente: «Prima consumeremo tutte le munizioni, poi ci ammazzeremo piuttosto che darci prigionieri». «Come comanda lei, signor capitano» rispose il soldato. [9]

Caduto il comandante, gli uomini cominciarono pericolosamente a perdere la direzione, ma in quel momento la voce tagliente di Manusardi sovrastò ogni rumore: «Non sbandate, seguitemi!». Manusardi prendeva il comando così, mentre caricava, il capo coperto della sola bustina e nella mano il frustino, come nel bel mezzo di una esercitazione.

Cessato l'appoggio dell'artiglieria, i russi sbucarono dai loro rifugi e opposero una resistenza crescente: una delle prime raffiche falciò Pastorello e Dalmini: arrivò di traverso e colpi il primo alla testa e al torace e il secondo all'addome: i due scivolarono di sella mentre i loro cavalli continuavano la corsa come impazziti. Lo squadrone stava caricando nel mezzo dello schieramento nemico, ma i russi delle prime posizioni, non ancora impegnati frontalmente, si voltavano spesso per colpire i cavalieri alle spalle.

La carica stava così dando luogo a mille episodi. Il caporale Lolli, non essendo riuscito ad estrarre la sciabola (vi aveva legato il secchiello dell'acqua e si era ghiacciata nel fodero), caricava tenendo alta una bomba a mano; quando vide un russo che lo attendeva a piè fermo, baionetta puntata, fece scartare il cavallo e lanciò la bomba: l'avversario fu dilaniato. Un russo, che aveva assistito alla scena, lasciò partire una raffica: Erbaccia rovinò al suolo e Lolli senti una gamba ricoprirsi di sangue. Sopraggiungeva intanto Valsecchi sciabolando alcuni russi in fuga: Lolli lo chiamò e l'amico scese ad aiutarlo, fermò un cavallo che passava senza cavaliere (era Diavoletto) e rimise in sella l'amico. La situazione precipitava: a mano a mano che lo squadrone procedeva galoppando, le sue file si assottigliavano; ad ogni raffica si vedevano cavalli impennarsi o ruzzolare, cavalieri piegarsi sul collo o cadere all'indietro, scivolare dall'animale, restando talvolta impigliati in una staffa, trascinati nella polvere.

I superstiti raddoppiavano la foga: molti di loro mulinavano sciabole cosacche, preda di guerra, armi terribili, senza guardia, strettamente legate al polso e pesantissime, che scendevano come spade medievali sugli elmetti, spappolandoli in un sol colpo assieme alla testa che riparavano. Il frastuono era tremendo anche perché dalle trincee dei russi erano improvvisamente sbucati gruppi di donne che urlavano «Urrà Stalin!» in continuazione, quasi istericamente, eccitando i soldati.

Ad un tratto, una raffica di parabellum colpi in pieno petto Fusinato il cui cavallo, dopo un'impennata, si lanciò verso le linee nemiche attraverso un campo di girasoli quasi fosse attirato da un misterioso richiamo. In coda alla turba dei cavalieri procedeva, un po' distaccato, Malingambi. Il suo ritardo era dovuto al fatto che Quota, una cavalla scartata da Toja, era chiaramente miope e incespicava ad ogni ostacolo. Ad un tratto, un russo usci a mezza cintola da una buca e lasciò partire una raffica che sibilò sopra la schiena di Malingambi e ammazzò il soldato che galoppava davanti a lui. Allora Malingambi diede uno strattone a Quota che galoppò ignara sulla buca mentre il suo cavaliere calava un terribile fendente sull'avversario che era senza elmetto: la testa del soldato si apri, scoppiando come un melagrana, mentre una raffica partiva da lì vicino e questa volta coglieva Malingambi trapassandogli una gamba.

Lo squadrone aveva intanto superato di poco la metà della fronte nemica, ma la sua forza era ridotta ormai a meno della metà degli effettivi. Resosene conto, Manusardi diede l'alt e, sotto il fuoco nemico, chiamò a sé la cinquantina di superstiti e disse loro: «Torniamo indietro e carichiamo un'altra volta: andiamo a liberare il vostro capitano». Gli uomini ripartirono aprendosi la strada con le bombe a mano.

Ora l'azione avrebbe avuto maggiore efficacia perché si sentiva sparare in direzione del Reggimento, segno evidente che stavano sopraggiungendo rinforzi.

Al comando, da alcuni minuti, ci si era resi conto della situazione critica: gli ufficiali, seguendo l'azione col binocolo, avevano notato che molti cavalieri venivano colpiti alle spalle dai russi della prima linea. Abba, a un certo punto, aveva gridato: «Li stanno ammazzando tutti: bisogna impegnare i russi anche frontalmente». Bettoni, che era giunto alla stessa conclusione, gli rispose: «Vai su tu, col quarto appiedato».
Rapidamente fu adunato lo squadrone, sostituito qualche appuntato ai cavalli in circolo, e affidato un compito di copertura ai mitraglieri di Foresio. Poi i plotoni si disseminarono nella pianura avanzando rapidamente: Abba al centro con la squadra comando, Rubino dietro di lui col plotone di riserva, Compagnoni sulla sinistra e Toja a destra.

C'era da percorrere quasi mezzo chilometro per giungere sul nemico e il capitano Abba ne approfittò per scattare alcune foto con l'apparecchio che teneva sempre al collo: all'orizzonte era ben visibile il pennacchio di polvere sollevato da quelli del 2° squadrone che, a quel punto dell'azione, stavano terminando la prima carica. Ma ben presto non ci fu più tempo per le foto: Compagnoni incontrò i primi russi nelle buche e li fece sloggiare, a colpi di bombe a mano, mandando alcuni prigionieri, sotto scorta, verso il comando.

Dopo aver attraversato un campo di girasoli ed essere penetrati in uno di erba alta, quelli del 4° vennero improvvisamente investiti dal fuoco delle mitragliatrici russe e molti caddero feriti nel verde che li nascose alla vista. Abba ordinò allora di fare allargare i plotoni e di procedere strisciando. Rubino, che si trovava ancora dietro la squadra comando, ricevette l'ordine di spostarsi sull'estrema sinistra dello schieramento.

«Si vedevano i russi scappare e voltarsi di scatto per sparare. In un attimo di tregua un cavaliere della squadra comando mi portò l'ordine di avanzare: ero vicino a un ragazzo del mio plotone che, ferito a un ginocchio, non poteva stare coricato ma io insistevo che stesse giù perché, quando avevo provato ad alzarmi, un proiettile nemico mi aveva forato la bustina». [10]

L'ordine di avanzare arrivò dunque a Rubino. Il sottotenente balzò avanti, alzandosi in piedi, e una raffica lo colse in pieno assieme a molti suoi uomini. Il giovane ufficiale era stato colpito a una gamba, ma continuò ad avanzare zoppicando, poi un'altra pallottola gli trapassò un polmone e allora fu costretto a fermarsi ma, tamponandosi il sangue alla meglio, continuò a dirigere l'azione del plotone fino alla fine del combattimento. [11]

Lo squadrone si muoveva in un avvallamento e i russi sfruttavano la loro posizione dominante sparando d'infilata e riparandosi dietro un gruppo di macchine agricole abbandonate. Solo Toja avanzava speditamente sulla sinistra cercando di raggiungere una posizione più elevata dalla quale attaccare il nemico sul fianco; spesso doveva moderare la foga dei suoi che non badavano a risparmiarsi: Mannozzi, Camporese, Cioffi, Grattirola, Secchi e Rizzi. Ad un tratto, Mannozzi, che aveva individuato un nido di armi automatiche, vi si buttò sopra armato di bombe a mano, ma una raffica lo centrò con tanta violenza da farlo avvitare su se stesso e cadere a pochi passi dall'obiettivo. Toja, che aveva assistito alla scena, agguantò un mitragliatore, lo rivolse in quella direzione e continuò a sparare finché non fu sicuro di aver ridotto al silenzio gli avversari. Abba, intanto, che aveva capito le intenzioni di Toja, si avvicinò per dargli aiuto sulla destra dello schieramento.

Fu a quel punto che si udirono distintamente quelli del 2° che stavano concludendo la seconda carica. Dall'aspetto dei cavalieri, la seconda passata non doveva essere stata meno violenta della prima.

«A un tratto mi ero ritrovato solo, con un gruppo di russi attorno: allora cominciai a urlare e a sciabolare puntando briglia e speroni e facendo impennare il cavallo. Sentii che in me si era scatenata la forza della sopravvivenza che mi dava una incredibile lucidità nelle azioni. Caricavo e sciabolavo nello spazio di pochi metri, urlando: "Daliéco, daliéco" (lontano, via!). I russi allora si misero a correre, come impazziti e senza sparare. Io li inseguivo al galoppo frenato e loro correvano... ». [12]

Poco più a lato galoppava il tenente Gotta: il suo Palù aveva il mantello grigio sforacchiato in più punti e dai fori zampillava il sangue. Bruni vide la scena e gridò al collega: «Attento, il cavallo ti muore sotto!». Allora Gotta scese di sella e chiamò l'attendente, ma Palù eccitato dalle ferite e dal fragore si liberò con uno strattone e riprese la sua corsa furiosa, nel senso della carica, scomparendo nel polverone.

Anche altri erano protagonisti di singolari episodi. Calvi, ad esempio, che era rimasto ferito e appiedato (gli avevano ucciso il cavallo), vide con disperazione i compagni rientrare, senza accorgersi di lui; allora, in un estremo tentativo, fece un fischio a un cavallo che vagava senza cavaliere e con grande stupore vide la bestia volgersi verso di lui e raggiungerlo. Il caporale Dirti, invece, dopo aver cambiato due cavalli, cadde con l'ultimo senza riuscire a togliere un piede dalla staffa, cosicché il cavallo gli rovinò sopra tenendolo prigioniero col suo peso inerte. Dirti, allora, visti due sbandati russi, puntò contro di loro l'arma e fece segno perché accorressero a liberarlo; cosa che essi fecero prontamente.

Tra i primi a sbucare da quel polverone fu Manusardi: era completamente coperto di sangue, ma non era ferito; il sangue era di Bergolo che aveva il petto squarciato e che quasi subito rovinò al suolo. Manusardi passò accanto a Abba e ebbe appena il tempo di salutarlo (sarebbe stata l'ultima volta): «Bravo, Abba: ti faccio mandare subito rinforzi». Poi, l'ufficiale raggiunse a piedi il comando e, vedendo che i rinforzi non erano ancora partiti, [13] gridò: «Guardate che lassù non è ancora finito: occorre un 'altro squadrone». Allora Bettoni diede disposizione che il 3° caricasse. A quell'ordine Marchio fece impennare il cavallo e parve preso da un'emozione incredibile. Raggiunse i suoi e diede brevi disposizioni a Bussolera e a Scarpelli che comandava i mitraglieri. Lo squadrone non aveva bisogno di incitamento perché tutti erano pronti da tempo e sembravano fremere d'impazienza. «Ricordo che vidi il sergente Fantini, tutto agitato, in attesa di partire. Aveva in testa la bustina, alla maniera di certi ufficiali, ed io gli dissi: "Ti dà noia la salute? Mettiti l'elmetto e ricorda che a casa hai una mamma anziana che ti aspetta", ma sembrava che non mi sentisse ». [14]

Gli ordini secchi tranciarono l'aria ancora una volta e il fragore degli zoccoli si allontanò come un tuono, lungo la pianura. Marchio, per paura di non arrivare a tempo, non prese la precauzione di rifare il percorso del 2° squadrone, ma puntò dritto verso la fronte.

Fu a quel punto che il maggiore Litta mandò il suo aiutante, il tenente Ragazzi, per dire al colonnello che, poiché tutto il suo gruppo stava caricando, anch'egli, con gli addetti al comando di gruppo, intendeva caricare. Litta non attese neppure la risposta e parti con la decina di uomini che gli erano rimasti. [15] Ragazzi, nonostante gli ordini contrari ricevuti, lo raggiunse galoppando e ingaggiò con lui una vivace discussione, perché non voleva tornare indietro. Persino gli addetti alla radio del comando di gruppo si misero al trotto: il sergente Cavagni, il sergente Colla, i cavalieri Fort e Regusa partirono trascinando il secondo cavallo carico di basti e di apparecchiature. Il maresciallo Casanova, nel vederli, corse a tagliare loro la strada imprecando: «Dove volete andare, voi, con la radio, i basti e i cavalli a mano, a farvi ammazzare?». I quattro si fermarono mugugnando. Litta, a quel punto, era già in testa a tutti: «Ricordo che, galoppando, trovò tempo di notare che alcuni caricavano senza stecca nella bustina». [16]

Il 3° intanto era giunto nell'avvallamento nel quale combattevano i colleghi del 4°. Lo squadrone, che era stato raggiunto da Litta e da tutto il comando di gruppo, arrivò in un punto di passaggio obbligato tra ampi scoscendimenti provocati dall'erosione del terreno e dovette restringersi. Questo movimento, però, fu fatale perché i russi, che avevano sistemato sui lati mortai e mitragliatrici, aprirono un fuoco infernale e centratissimo.

«Nel vederli arrivare ci eravamo un attimo fermati per guardare sbalorditi quella carica tremenda, ma presto il fuoco si abbatté su di loro con incredibile precisione: vidi cadere per primo Ragazzi, poi il sergente Mentasti, poi Ardito, l'attendente del maggiore, poi il sergente maggiore Fantini che montava Albino, poi il sergente Bonacina e Dossena e tanti altri cavalieri falciati come grano dalle raffiche. Vidi Marchio che, insanguinato, urlava di dolore e di rabbia, e raccolsi Bussolera ferito all'addome». [17] Anche Litta era stato ferito a una gamba da una raffica che gli aveva ucciso il cavallo: l'ufficiale cercò di salire su quello del suo caporale, ma le forze gli mancarono. Allora si trascinò verso una mitragliatrice e indicando al soldato un punto del fronte disse: «Più a destra; devi tirare da quella parte». «Signorsì», rispose il mitragliere che ormai sparava piangendo come un bambino. Il maggiore avrebbe voluto continuare a dare ordini, ma fu raggiunto da un'altra pallottola.

Un infermiere, Molteni, accorse e si rese subito conto che non c'era più nulla da fare. Litta ebbe appena il tempo di sussurrare: «Madonna santa, ti raccomando il mio bambino». [18]

Marchio, intanto, era stato raggiunto da un cavaliere che gli aveva preso il cavallo per le briglie. L'ufficiale, infatti, aveva entrambe le braccia ferite (una spezzata da schegge di mortaio), che gli ciondolavano dalle spalle ed era stato costretto a galoppare reggendosi solo con le ginocchia.
Il 3° squadrone era ormai senza ufficiali (Scarpelli era appiedato con i suoi mitraglieri) e fu il sergente Negri a guidare l'ultimo balzo.

Appena il 3° ebbe sopravvanzato il 4°, Abba decise di spostarsi sulla sinistra dove il plotone di Rubino era rimasto senza ufficiale. Ma durante lo spostamento, una raffica falciò lui e molti dei suoi uomini: lo raccolsero poco dopo Toja e Compagnoni: «Aveva un forellino rosso all'altezza del cuore e sulle labbra il suo inconfondibile sorriso». [19]

Fu a quel punto che Bossi, il «solitario», spuntò da chissà dove e traversò di corsa la fronte: teneva in una mano una mitragliatrice senza treppiede e nell'altra una cassetta di munizioni. Trovato un punto sufficientemente elevato dal quale si potessero prendere di mira i russi che mitragliavano, standosene sotto una trebbiatrice, Bossi si gettò carponi, infilò la canna dell'arma nel manico della cassetta perché restasse più ferma e mirò. I russi, che si erano accorti di lui, fecero le stesse operazioni: le raffiche partirono dalle due armi quasi contemporaneamente, e, quasi contemporaneamente, le due mitragliatrici tacquero per sempre.

Proprio in quel momento si udirono le grida di vittoria lanciate dai superstiti del 3° squadrone che stavano mettendo in fuga gli ultimi nemici: «Gli eravamo saltati addosso sciabole alla mano ma quando ci accorgemmo che non bastava usammo tutti le bombe a mano. Dell舗intero squadrone (più di cento cavalieri) eravamo rimasti una trentina, ma li mettemmo in fuga. Molti, feriti, si cacciavano nel campo di girasoli che avevano alle spalle, ma i più si arrendevano. Dei nostri, l'ultimo a morire fu Bianchi, un ragazzo di Magenta: gli spararono contemporaneamente in tre, da una buca. lo li vidi e galoppai su di loro gettando nella fossa una bomba a mano, ma la bomba non esplose e allora fui costretto a voltare il cavallo e a tornare indietro per lanciarne un'altra. Da parte russa le ultime a mollare furono le donne: le "sorelle della misericordia", vista la mala parata, si erano messe a sparare anche loro». [20]

Tra una raffica e l'altra, quelle donne coraggiose non cessavano però di dare la loro assistenza ai feriti: «Ne vidi una con il volto sfregiato da una sciabolata: girava fra le trincee quando udì uno dei nostri, il caporal maggiore Alessandrini, che invocava aiuto. Allora si fermò e chinatasi sul ferito si mise ad assisterlo amorevolmente. Quando andammo per raccoglierli, li trovammo morti, tutti e due, uno accanto all'altra». [21]

Al comando di Reggimento, intanto, c'era stata una grande animazione: il tenente colonnello Cacciandra e il capitano Aragone, prima ancora che l'azione si sviluppasse, erano stati feriti alle gambe. Bettoni stesso aveva avuto il cappotto sforacchiato da una pallottola di mitragliatrice ma non se n'era neppure accorto tutto preso com'era dagli eventi. Ad un tratto aveva apostrofato il tenente Genzardi, l'alfiere, dicendo: «Che cosa aspetta a sciogliere lo stendardo: non vede che "Savoia" sta caricando?». E poco dopo aveva ordinato che gli venisse portato il cavallo: «Dobbiamo caricare anche noi!» aveva detto ed il maggiore Piscicelli, suo aiutante, aveva dovuto ripetergli una infinità di volte: «No, Sandro, tu non devi caricare: tu devi restare qui a dirigere le operazioni». [22] Ma Bettoni non ebbe pace finché non giunsero i primi ufficiali ad annunciargli che il nemico era annientato: «Lo ricordo mentre tornavo dalla carica: era in piedi sulla Balilla, pallidissimo, e teneva una mano appoggiata allo stendardo... ». [23]

A mano a mano che i suoi uomini ritornavano. Bettoni li abbracciava commosso: «"Savoia" ha caricato!» dicevano gli ufficiali; «"Savoia" ha caricato!» rispondeva Bettoni, ma era ansioso di conoscere con esattezza le sue perdite. Sul campo di battaglia, infatti, era cominciata la raccolta dei feriti e dei caduti. Erano le nove e trenta.

«Com'era triste e doloroso questo incarico che toccò proprio a noi del 4° e che durò per alcune ore ininterrottamente. Fu allora che giunse anche il cappellano militare ed io ne approfittai per tornare al comando a chiedere aiuto. Bettoni, al quale mi presentai dando le novità dello squadrone (11 caduti e 27 feriti), mi abbracciò forte forte. Per lui, come per Compagnoni, la mia presenza aveva del miracoloso dato che si era sparsa la voce che fossi caduto in combattimento. Chiesi subito che fossero inviati sul campo degli automezzi per il trasporto dei feriti e degli uomini del l° squadrone, rimasti fino allora inattivi, per dare una mano. Procedemmo così alla raccolta dei feriti, sia nostri che russi, poi a quella dei caduti e infine al recupero del materiale abbandonato dai nemici. Il campo restava però disseminato di una quantità di cavalli uccisi ». [24]

Si seppe così, finalmente, la situazione: i seicentocinquanta cavalieri avevano combattuto contro duemila siberiani. Le perdite per il «Savoia» ammontavano a 32 morti (3 ufficiali), 52 feriti (5 ufficiali) e più di 100 cavalli fuori combattimento. I russi avevano invece lasciato sul campo 150 morti, 300 feriti, 500 prigionieri, quattro cannoni, dieci mortai, cinquanta mitragliatori e centinaia di fucili. Tra i prigionieri c'era un intero comando di battaglione. C'erano anche alcuni plotoni di mongoli interamente equipaggiati con uniformi italiane preda dell'attacco alla «Sforzesca».

I feriti italiani vennero distesi su teli da tenda divisi in due gruppi: i più gravi e i meno gravi; dagli ospedali da campo, infatti, era giunta notizia che non ci sarebbe stato posto per tutti. Bossi, «il cavaliere solitario», aveva il ventre segato in due da una raffica e fu messo tra gli irrecuperabili, ma trovò il modo di chiamare un compagno per farsi spostare di posto: non aveva nessuna voglia di morire (e infatti non sarebbe morto). Un suo compagno, invece, ormai esausto, chiese solo di poter baciare lo stendardo.

Sul campo, soldati e ufficiali si dirigevano verso i luoghi dove avevano visto cadere i loro colleghi: Litta fu trovato col volto rivolto al cielo, l'uniforme impeccabile, le mani guantate e la bustina tenuta tesa dalla stecca: un soldato si chinò e tolse dal copricapo la bacchetta di legno dicendo: «Questa la terrò per ricordo». Scarpelli raccolse invece la sciabola del maggiore (il padre della vittima, ottantenne generale, nel riceverla qualche tempo dopo si metterà sull'attenti come una recluta). [25] Il caporal maggiore Bottini, vagando tra i cavalli, trovò Palù steso in una pozza di sangue e gli tolse la sella per consegnarla a Gotta. Alcuni soldati ritrovarono invece Abba, con il volto abbellito dal caratteristico sorriso e sul petto la macchina fotografica ancora aperta. Man mano che un camion era carico di feriti faceva ritorno al comando. Dopo i primi arrivi, Bettoni sembrò non rassegnarsi a quella vista e andò a sedersi sul predellino della sua auto con il volto tra le mani. Casanova lo vide e gli offri un caffè che Bettoni rinutò forse per la prima volta in vita sua: «Aveva le lacrime agli occhi e mi chiese: "Casanova, pensi che i genitori e i parenti di questi ragazzi capiranno che io non avevo altra scelta?" ». [26]

Poco dopo arrivarono alcuni ufficiali di cavalleria tedesca che erano di collegamento con un reparto operante alla sinistra del Reggimento: dalle alture vicine avevano visto tutto e per la prima volta manifestavano un'ammirazione mista ad incredulità nei confronti degli italiani. Si avvicinarono a Bettoni e scattando sull'attenti espressero la loro ammirazione: «Herr Colonel, noi queste cose non le sappiamo più fare». [27]

Bettoni ringraziò e fece spiegare ancora una volta lo stendardo, poi radunò i suoi uomini e ordinò di presentare le armi in direzione di quota 213 non mancando di ricordare che il «Savoia Cavalleria» compiva proprio in quei giorni il suo 250° anno di vita. Subito dopo tenne un breve rapporto. Manusardi aveva suggerito di sfruttare il successo e di spingere il Reggimento fino al Don, ma Bettoni ritenne che il reparto non avesse la forza di affrontare un' eventuale nuovo attacco. Si preferì invece mandare fino al fiume alcune pattuglie onde evitare eventuali sorprese.

«Ricevetti l'ordine di fare un sopralluogo con la pattuglia e di proseguire fino a una collina distante circa otto chilometri per osservare se vi fossero in vista altri reparti russi. Con noi si mosse anche la pattuglia OC (osservazione-collegamento). Raggiungemmo la collina e vi rimanemmo fino alle quattro del pomeriggio ». [28]

Più tardi si pensò di mandare un plotone fino oltre il Don e a tale scopo si offri il capitano Vannetti che, essendo ferito a una mano, non aveva potuto partecipare alla carica e che, per questo, sembrava non avere pace. Anche quel progetto, però, fu sospeso. La sera stessa i camion dei feriti partirono.
«Trovammo il tenente medico Piemonte che medicò me, Carboni, Dierna e Mari e via via tutti gli altri. Alcuni, come Dalmini e Pastorello, morirono quasi subito». [29] Al Reggimento, intanto, aveva telegrafato il generale Messe promettendo un gran numero di medaglie: tutti gli ufficiali che avevano caricato sarebbero stati decorati e anche moltissimi soldati (54 medaglie d'argento). Litta e Abba venivano proposti per la medaglia d'oro e cosi pure lo stendardo. [30]

Poche ore dopo, dall'ospedale di Rycowo, arrivò un messaggio radio del capitano Marchio che diceva: «Subita amputazione braccio. Nella fierezza del dovere compiuto formulo voti augurali maggiori glorie glorioso Stendardo».

 

Note

1 Da un'intervista dell'autore con Aristide Bottini. Questa testimonianza smentisce quella finora accreditata, secondo la quale le pattuglie «spararono alcune raffiche nei campi per vedere se c'era qualcuno».

2 Dal diario di Ferruccio Marino.

3 La stima fu eccessiva. Tre battaglioni, secondo Messe.

4 Il maggiore Gerardo Conforti aveva avuto il comando del l° gruppo al posto del tenente colonnello Cacciandra, divenuto vicecomandante.

5 Da un'intervista dell'autore con Nino Malingambi.

6 Da uno stralcio del diario del capitano De Leone.

7 Da un'intervista dell'autore con Giordano Gallotti.

8 Da un'intervista dell'autore con Gualtiero Lolli.

9 Vedi nota 6.

10 Da una lettera del sottotenente Compagnoni al collega Toja.

11 Dal diario di Franco Toja.

12 Dall'intervista a Nino Malingambi.

13 Manusardi aveva già chiesto aiuto all'inizio della seconda carica, ma il portaordini, rimasto appiedato, era arrivato al comando poco prima di lui.
«Partii al galoppo tra il fischiare delle pallottole, ma poiché correvo allo scoperto, ben presto la mia Talpa venne centrata da una raffica ed io dovetti continuare la corsa a piedi in un grande campo di grano appena mietuto. Quando giunsi ansante dal colonnello, questi mi infilò tra le labbra la sua sigaretta e mi disse: “Stai calmo e spiegati bene”. Io riferii ». (Testimonianza Galbarini.)

14 Da un'intervista al maresciallo Casanova.

15 Il gesto di Litta fu interpretato dai più come un atto di passione e di eccessivo zelo. In realtà (cfr. GIANOLI, Op. cit.), dato il carattere dell'ufficiale, sembra molto più credibile la versione secondo la quale Litta tentò con quel gesto plateale di attirare su di sé l'attenzione del nemico, rimediando alla spericolatezza di Marchio. Partendo, l'ufficiale esclamò: «E adesso carichiamo “alla Litta"». (Testimonianza Manusardi.)

16 Dall'intervista a Giordano Gallotti.

17 Dal diario del tenente Toja.

18 Dal diario del tenente Toja.

19 Dall'intervista con Gualtiero Lolli. Subito dopo la carica si sparse la diceria che Abba fosse stato colpito mentre fotografava. In realtà, come risulta inequivocabilmente dal carteggio Toja-Compagnoni (proprietà Manusardi) e dalle stesse foto scattate da Abba e poi sviluppate, l'ufficiale aveva smesso di fotografare prima di entrare in azione.

20 Da un'intervista dell'autore con Mario Negri, già sergente del 3° squadrone in Russia.

21 Da un'intervista dell'autore con Osvaldo Galbarini, già caporal maggiore del 2° squadrone in Russia.

22 Da un'intervista dell'autore con Cesco Casanova.

23 Da un'intervista dell'autore con Giordano Gallotti.

24 Dal diario del tenente Toja.

25 Da un'intervista con il sottotenente Scarpelli.

26 Dall'intervista a Cesco Casanova.

27 Dal diario del capitano De Leone.

28 Dall'intervista con Aristide Bottini.

29 Dall'intervista con Gualtiero Lolli.

30 Ecco la motivazione della Medaglia d'oro concessa allo stendardo: «Temperato ad ogni arditezza e sacrificio, nel corso delle operazioni offensive per la conquista di un'importante regione industriale e mineraria, assolveva con immutata dedizione e inalterato coraggio le missioni gravose, complesse e delicate, fiancheggiando grandi unità nell'inseguimento di rilevanti ed agguerrite retroguardie avversarie; divampata repentinamente la battaglia contro il nemico, che, con la potenza del numero dei mezzi, rompeva bramoso sulla via meridionale del Don, piombava con fulminea destrezza sulle colonne nemiche delle quali domava più volte la pervicacia, sventandone l'insidia e contribuendo, con rara perizia e maschia temerarietà, allo sviluppo efficace della manovra di arresto. Affrontato all'improvviso da due battaglioni avversari, durante rischiosa e profonda esplorazione, ne conteneva l'urto con la valentia dei reparti appiedati e, avventandosi in arcione sul fianco degli avversari, ne annientava la belluina resistenza, restituendo alla lotta, con l'impeto corrusco delle sue cariche vittoriose, il fascino dell'epoca cavalleresca, ed illustrando il suo nome alla pari dei fasti del Risorgimento e delle sue secolari tradizioni». Fronte russo, luglio-agosto 1942.

 

 

Isbuscenskij, l'ultima carica, di Lucio Lami
288 pag., euro 10,00 (al febbraio 2008)
Edizioni Mursia, 1997 (Prima edizione Mursia, 1970)
ISBN: 9788842522515
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