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» Articoli - 21 giugno 2010 «

Diritti umani a Cuba

Ogni volta che la Commissione dell’ONU per i diritti umani, dopo aver ammesso i suoi fallimenti, fa capire che Cuba potrebbe essere condannata per le sue innumerevoli violazioni, la pochade ricomincia.

E i protagonisti sono sempre gli stessi: quelli che Castro ha ricoperto d’onori per tenerseli buoni (scrittori, musicisti, artisti, sportivi) che poi devono ricambiare.
Quelli che con Cuba fanno affari d’oro e che quindi invocano la quiet diplomacy. Quelli che all’Avana vanno in viaggio ufficiale, percorrono l’itinerario standard e si abbuffano ai pranzi di corte, senza mai mettere il naso nella casa di un popolano.
Quelli che, come intellettuali, credono che non si possa essere progressisti senza essere anti-americani e quindi filo castristi, come Samargo, la Gordimer, Esquivel.
Quelli che, essendo nostalgici del vetero-comunismo, vedono in Cuba il puerto escondido dove sopravvive uno stalinismo sorridente e ballabile, come Niemeyer e i firmatari d’appelli pro-Castro. Quelli che dei colloqui-serenata con Castro hanno fatto un’industria, come Minà e Marquez.
Quelli che, a frotte, vanno a Cuba, per turismo, sessuale e no, e che passano dall’ex Hilton alle sabbie di Varadero senza accorgersi di nulla o fingendo di non vedere.

Contro questo nutrito esercito di supporters, si schierano gli altri, coloro che pensano che attaccando Castro si danneggi la sinistra. Dubito che sia vero.
La verità è che i diritti umani interessano a pochi. Di questi tempi, anche i paesi democratici tendono ad usare due pesi e due misure e le dittature amiche diventano meno condannabili che quelle nemiche.

Sono vent’anni che a Cuba schiere d’intellettuali denunciano la totale mancanza di libertà d’espressione. Fui il primo giornalista ad intervistare i loro leaders, per questo giornale, nel 1986. Li incontrai di notte, in riva al mare, freschi di carcere e mi raccontarono la verità sulle prigioni cubane. L’indomani, mentre rientravo in Italia, i tre coraggiosi (Elisandro Sanchez, Adolfo Rivero ed Enrique Hernandez) furono nuovamente oggetto di caccia grossa. Molto più tardi, uno di loro, tornato in libertà, mi raccontò: ”Siamo stati picchiati a lungo. Tra l’altro volevano che firmassimo una carta dove lei era indicato come agente della Cia”.
Il fatto era grave, aveva coinvolto altri, come Bofil, il capo del movimento, che si rifugiò nell’ambasciata francese. Ma non ci fu scandalo.

Così com’era accaduto per l’Urss, anche per Cuba si fanno convivere la realtà e la surrealtà. L’ultima volta che vi andai, prima che mi cacciassero, nella farmacia principale della città non si trovava neppure l’aspirina, ma sui giornali che mi ero portato dall’Italia leggevo delle meraviglie del servizio sanitario cubano. Ed era inutile spiegare che anche a Mosca c’era l’ospedale modello, per i capi del partito e gli stranieri in visita.
Alla mia amica Maria Elena Cruz Varela, la più grande poetessa cubana vivente, vincitrice del Premio Nazionale di Poesia dell’Unione degli scrittori cubani, mandarono in casa – dopo che aveva firmato un appello libertario – gli squadristi del regime che la picchiarono a sangue, la costrinsero a mangiare il manoscritto delle sue poesie. Poi fu condannata a due anni di prigione.

Da almeno trent’anni, cioè dai tempi dell’incarcerazione e tortura del poeta Padilla, a Cuba si pratica una repressione violenta contro chiunque sia diversamente pensante. Ma l’Occidente vive di leggende. La leggenda dei successi della rivoluzione, che non è mai venuta meno, neppure quando la fame straziava i cubani, neppure quando la fuga dall’isola divenne un fenomeno di massa stroncato solo dalla forza poliziesca.

Per molti, ”i governi devono essere giudicati solo per quel che realizzano nel campo dell’istruzione, della sanità, del lavoro”, ma con questo metro finiremmo per erigere monumenti a Pinochet, Franco e Salazar. Pochi, a sinistra, notano la contraddizione.

Qualche ingenuo, come Abbado, ci dice che a Cuba ci sono bellissimi orti e ottimi giovani dediti alla musica e al balletto. Altri, meno candidi, ci parlano di un Castro che “dopotutto ha tolto l’isola dall’ignoranza e dalla miseria”. Fiabe. A Cuba, prima della rivoluzione, il livello di alfabetizzazione era dell’80%, superiore a quello della Spagna (30 mila classi elementari, 34 mila insegnanti di ruolo). Cuba era al 22° posto nella classifica mondiale della sanità, con 128 medici ogni 100 mila abitanti (superando la Francia, l’Olanda e il Regno unito). Questi fatti erano noti, tanto che nel 1959 gli uffici consolari cubani a Roma furono travolti da 12mila richieste di italiani che volevano emigrare a Cuba.

Il mito cubano che serve a creare dubbi sulla realtà dell’isola, è nato al tempo in cui Cuba era una portaerei fissa dell’Urss. Mosca assegnava a Cuba 5000 milioni di dollari l’anno. Il totale dei sussidi ricevuti da Castro in quegli anni supera i 100.000 milioni di dollari, una cifra di molto superiore a quella stanziata dagli Usa per il Piano Marshall. Quando cadde il muro di Berlino io tornai a l’Avana dove l’ambasciatore russo mi disse: “D’ora in poi non scuciremo più un soldo”. Così scoppiò la crisi, non per l’embargo americano, sistematicamente aggirato grazie al Brasile e al Venezuela. Così nel 1990 Cuba per denutrizione fu colpita da una deficienza di vitamina A che provocò un’epidemia di malattie oftalmiche. Nel 1993 quando i cubani erano ridotti all’acqua e zucchero, la carenza di vitamina B provocò neuriti ottiche e periferiche in 60 mila cubani.

Tutte queste, per gli aficionados, sono calunnie. Cuba è un piccolo paradiso minacciato dagli americani. Centinaia di cittadini, ogni anno, entrano in carcere per non aver condiviso sul castrismo il giudizio degli estimatori occidentali. I diritti umani restano un lusso, laggiù. E da noi, un elemento di rimorso, quasi sempre travolto dagli interessi politici ed economici. E poi, qualsiasi condanna turberebbe “la pace”, in nome della quale siamo disposti a qualsiasi aberrazione. Per Castro, invece, habrà tempo sufficiente para aplastar las cucharacias, “ci sarà sempre tempo per calpestare gli scarafaggi”, quelli cioè che non ne possono più del suo regime di repressione e tentano di dirlo, finendo in galera.

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