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» Articoli - 27 febbraio 2003 «

Risposta a Giovanni Raboni

L’idea suggerita da Giovanni Raboni sul Corriere del 5 febbraio (“Gli intellettuali italiani d’opposte tendenze politiche discutano, non da uomini di parte, ma –appunto– da intellettuali”) è molto nobile, così come appare molto razionale anche la risposta di Marcello Veneziani (“Dissento dal tentativo, pur generoso, di creare, tramite convegni, la raccolta di intellettuali che, in quanto liberali, non possono essere accomunati in una setta”).

L’impasse nasce dall’importanza che entrambi gli interlocutori attribuiscono all’interventismo politico degli intellettuali, importanza già cara a Moravia, che parlava di “sacralità dello scrittore”, e perfino a Solzenicyn per il quale “Un grande scrittore è, per così dire, un secondo governo per il suo Paese”.

In realtà, se si va ad esaminare quel che ci resta del XX° secolo, con le sue due Guerre Mondiali, l’Olocausto e le ubriacature per i regimi totalitari, notiamo che dall’alto di quelle montagne di macerie, gli intellettuali hanno urlato per decenni, spesso a sproposito, afflitti dalle loro tre malattie infantili: l’estremismo ideologico, la vanità e l’opportunismo. Come se in loro esistesse, notava Paul Johnson, “una sorta di funesto climaterio, di menopausa intellettuale, che potremmo chiamare fuga dalla ragione”. Malattie antiche, che facevano già dire a Eraclito di Efeso, sei secoli prima di Cristo, che “il saper molto non insegna a pensare rettamente: Pitagora è il capo degli ingannatori”.

Già dopo la prima Guerra Mondiale, per dirla con Aron, la pubblica opinione non aveva dimenticato gli appelli firmati, sulle due sponde del Reno, dai più grandi nomi della filosofia e della letteratura: essi avevano ripetuto ai soldati che stavano combattendo una guerra per la cultura e la civiltà. Fu allora che Julien Benda rese celebre l’espressione “tradimento dei chierici”.

Nel 1931, in Italia, su 1250 professori universitari chiamati a giurare fedeltà al fascismo, solo 11 non firmarono. Parimenti, nel 1935, un gran numero di scrittori francesi sottoscrisse un manifesto di solidarietà alle nuove dittature, facendone pubblicità sui giornali. Nel 1938, col Manifesto della razza, molti intellettuali italiani emulavano i colleghi tedeschi che avevano innalzato il razzismo a scienza. Nei mesi di occupazione nazista di Parigi, ci furono scrittori che ridicolizzarono il collega Jules Romains che se n’era andato a New York con gli archivi del Pen Club francese, e si domandarono “perché gli pseudo-maestri del pensiero, come Romains, lasciassero la Francia così vilmente”.

Eppure, solo qualche anno dopo, all’inizio degli Anni Cinquanta, la stessa compagine di intellettuali, rappresentata da più di cinquecento delegati di quaranta nazioni, si riuniva a Breslavia per il “Congresso degli intellettuali per la pace” e inneggiava compattamente alla dittatura di Stalin, senza notare che dei settecento scrittori russi che erano stati presenti al Primo Congresso dell’Unione nel 1934, solo cinquanta erano sopravvissuti alle purghe: meno del dieci per cento. I maitres à penser giustificavano il totalitarismo comunista come avevano vezzeggiato quello nazifascista: “L’ideologia degli intellettuali, svincolata dalla verità e dall’onestà, era più forte che mai” (J.F.Revel).

Per quasi mezzo secolo, molti di questi intellettuali si rifiutarono di prendere atto della lezione del Gulag e considerarono l’Olocausto russo come uno strumento spuntato della “Solzenicyn parade”, mentre centinaia di scrittori sopravvissuti ai manicomi russi e ai campi di concentramento siberiani erano trattati da provocatori.

Sembra che tutte le filosofie del secolo appena concluso, ispiratrici del mondo intellettuale occidentale, abbiano avuto in comune il disinteresse teoretico per la libertà. Ecco perché mi sembra che la prima mossa che dovrebbero fare i “maestri del pensiero” sia un passo indietro. Non bisogna lasciare solo alla Chiesa il privilegio di scusarsi.

Il superamento delle fedi politiche e l’attitudine a sgombrare i campo dai confini ideologici fu predicato, fin dal 1921, dalla poetessa inglese Dawson-Scott, fondatrice del Pen Club e da John Galsworthy, autore di Justice, che del Pen fu il primo presidente.

Pensare da intellettuali e non da uomini di parte, come dice Raboni, è la strada da seguire, ammettendo però gli errori passati nel secolo dei fanatismi. Come diceva Alain Robbe-Grillet, già nel 1957, “come è possibile che ci dimentichiamo le nostre sottomissioni, e le dimissioni successive, e i rancori e le scomuniche reciproche! Ridiamo al concetto di impegno il solo senso che può avere per noi: invece di essere di natura politica, l’impegno sia per lo scrittore la piena coscienza dei problemi e la volontà di affrontarli dall’interno di se stessi”.

Lucio Lami
Corriere della Sera, 27 febbraio 2003

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