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» Articoli - 13 marzo 2003 «

Informazione: la guerra nella guerra in Irak

I media italiani hanno relegato tra gli spunti di colore la notizia secondo la quale gli Usa si accingono a concedere a cinquecento giornalisti, quasi tutti americani e inglesi, di vedere dalle prime linee la probabile e imminente guerra all’Irak. Il fatto, invece, è d’importanza straordinaria e può preludere ad una guerra nella guerra: da un lato i comandi militari, bisognosi di segretezza e di sorpresa, dall’altro un esercito di giornalisti, armati di telefoni satellitari e di videocamere in grado di trasmettere gli eventi mentre si svolgono.

È la prima volta che il giornalismo ipertecnologico arriva ufficialmente sul campo di battaglia. La guerra in Afghanistan è stata solo una prova generale, con i giornalisti più intraprendenti, armati di satellitari, al seguito dei guerriglieri, raramente coinvolti nell’azione in prima linea.

La decisione del governo statunitense è maturata dopo anni di polemiche. Le ultime due guerre del Golfo avevano umiliato i giornalisti fino all’inverosimile, costringendoli a passare i comunicati dei comandi militari e a non vedere quasi nulla. Nel 1997 la Carnegie Commission on Preventig Deadly Conflict aveva pubblicato a New York un feroce studio sulla “Copertura dei media” denunciando, tra le altre cose, le censure, come ostacolo primario nella prevenzione di futuri conflitti.

Messo sotto accusa, il Pentagono ha risposto con questa mossa a sorpresa: riservare cinquecento posti al fronte per i giornalisti accettati come embledded (inseriti), facendo loro omaggio di tuta, razioni K e maschera antigas e invitandoli a rilasciare una dichiarazione scritta che indichi a chi dovrà essere eventualmente consegnata la loro salma. Questi ospiti poco graditi saranno inseriti nei plotoni combattenti, ma dovranno comportarsi come un diabetico in pasticceria: proibito fotografare il campo di battaglia, trasmettere in diretta azioni militari, inviare informazioni sulle forze in campo, sui morti americani, su dichiarazioni raccolte off the record, e via elencando, come si legge nel promemoria stilato per gli ospiti al fronte.

Va da sé che gli “arruolati” sottoscriveranno tutti gli impegni, salvo poi violarne molti, in nome della fedeltà al giornalismo e della caccia allo scoop. Il rischio è che i militari reagiscano male, col risultato di ottenere dai media lo stesso trattamento ostile che ricevettero ai tempi della guerra nel Vietnam.

Il conflitto di interessi tra i militari e i corrispondenti di guerra viene da lontano: da quando i telefoni, in particolare quelli da campo, e le prime radiotrasmittenti permisero ai giornalisti di far sapere in tempi brevi quanto accadeva in zona di operazioni, fornendo a volte notizie che involontariamente servivano al nemico. Chi ha occasione di leggere il libro di Rosario Mascia, pubblicato in questi giorni: “I giornalisti alla conquista dell’Impero” (Ed. Terziaria), noterà come il tenere i giornalisti sotto controllo, o lontano dalle operazioni militari e dai telefoni, era già un’arte consumata al tempo della guerra d’Abissinia. Scriveva allora Cesco Tomaselli, commentando l’arrivo di Badoglio al comando delle truppe italiane: “Venuti in Africa Orientale con tende, macchine fotografiche e stivali da campagna, dopo aver scorrazzato due mesi nel Tigrai…arrivò l’ordine (di bloccarci) del nuovo comandante. Quarantacinque giorni durò la nostra penitenza: una specie di ramadam della stampa. Non avevamo più materia per scrivere, quindi non facevamo che chiacchierare, brontolare e preparare fughe clandestine che venivano facilmente scoperte”. Un ritrattino che mi ricorda la seconda guerra del Golfo, quando ci cacciarono da Bagdad e centinaia di giornalisti si ritrovarono nei lussuosi alberghi di Amman a scrivere, tra una nuotata e l’altra in piscina, quel che vedevano in televisione, sintonizzandosi sulla CNN. Io mi rifiutai di restare, ma pochi giornali ritirarono i loro inviati, anzi si adattarono a fornire loro, dalle redazioni, gli scampoli d’agenzia con i quali imbastire le corrispondenze. Gli inviati scrivevano “dal fronte” (in realtà ben lontani da esso) ciò che non vedevano e che veniva loro comunicato dalla redazione e dalle televisioni.

In teoria, il “reclutamento” di cinquecento giornalisti da portare in prima linea in Irak dovrebbe ovviare a situazioni come queste. Non v’è dubbio, in ogni caso, che la loro presenza con tecnologie che consentono l’informazione real time rappresenterà un cambiamento epocale nel reportage di guerra. Tuttavia la nuova era aprirà una serie di problematiche ancor più complesse.

Innanzi tutto, come ho detto, accentuerà il conflitto tra le esigenze dei militari, che considerano l’informazione parte integrante della strategia, e quelle degli inviati. In secondo luogo, creerà una suddivisione netta tra i cinquecento autorizzati a vedere e tutti gli altri giornalisti, accampati negli alberghi lontani dai fronti. (Di questo fenomeno abbiamo già avuto le prime avvisaglie nei giorni scorsi, quando l’inviata di una televisione italiana ha ripetutamente iniziato le sue corrispondenze con la frase: “Sto vedendo il telegiornale della Tv di Bagdad e queste sono le notizie…”).

Infine aumenterà quella che Nik Gowin, specialista americano di queste problematiche, chiama “il caos del supermercato”, cioè una crescita spropositata del volume delle notizie destinate a rendere l’informazione meno attendibile. Questo perché poche organizzazioni mediatiche avranno le strutture capaci di selezionare le notizie, usarle per la realizzazione di un quadro completo della situazione, gerarchizzarle e fornire il tutto con la tempistica del real time. Insomma, a una maggiore libertà (relativa) del giornalismo sul campo corrisponderà una riduzione tecnica delle fonti di elaborazione. I grandi gestori diventeranno, per le televisioni, la ITN di Londra, le tedesche ARD e ZDF, la stessa BBC, forte dei suoi 250 corrispondenti nel mondo e dei suoi 42 uffici all’estero, per non parlare di alcuni network americani. Lo steso vale per le grandi agenzie di stampa.

Nell’ambito della guerra che vede il debutto del giornalismo ipertecnologico avremo dunque tre categorie di informazione: quella di serie A, degli ospiti al fronte, con tutte le limitazioni previste; quella di serie B, degli inviati d’albergo nelle retrovie; quella di serie C, certamente la più potente, costituita dalla agenzie, destinate a fornire il “preconfezionato” (e spesso il politicamente controllato) a migliaia di piccoli giornali e di televisioni di media grandezza.

La novità degli embedded e dell’alta tecnologia non risolve per ora il problema del Grande Fratello incombente.

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